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04 Dicembre 2019 – ore 06:59
Dopo circa un mese di varie esaltazioni nella capitale del Bundesrepublik Deutschland, ho sentito irrefrenabilmente il bisogno di varcare il confine germanico recandomi, anche solo per un giorno, nella vicina Polonia. Così spinto dalla necessità di volermi “commovère”, sono arrivato ieri mattina a Cracovia ed oggi è il giorno dopo; cioè il giorno dopo esser stato ad Auschwitz, e non è un giorno qualsiasi.
In questo preciso istante mi innalzo verso il cielo e con l’aereo mi dirigo di nuovo a Berlino, dove per ora, mi attende la cosiddetta “normalità”, mi attende la vita che, in una dimensione come quella del campo di concentramento di Auschwitz, si annulla completamente. I miei occhi piangenti sono incollati al finestrino ed intravedono una Polonia fredda ed annebbiata, coperta di neve grigia e fumo di ghiaccio secco. I boschi neri bruciati dal gelo sprigionano impulsi di terrore e di mestizia, ed il mio sguardo cerca ansiosamente un pò di colore o un qualsiasi segnale di luce. L’esplosione di queste sensazioni “infernali”, si dissolve improvvisamente in un cumulo di vapore in cui i miei occhi perdono la vista e per un istante tutto mi sembra irreale.
Dopo questo breve attimo di sospensione, l’uccello gigante mi tras-porta in una sfera “paradisiaca”, che sembra essere totalmente in contrasto con quella di pochi attimi prima. La vista è ritornata brillantemente e si focalizza all’istante sulla nascita dei colori intensi emanati dal sublime paesaggio celeste. Il cielo si presenta ai miei occhi avvolto da una veste che varia dal bianco al rosso sfumato da un morbido arancione, ma soprattutto intrisa da quel luminoso spettro di luce azzurra che oscilla tra un verde primavera ed un indaco schiarito. Il complesso dei colori è ben armonizzato con il manto bianco delle nuvole, ed il tutto nel suo meraviglioso insieme, è illuminato da quell’enorme stella capace di generare vita. I raggi si riflettono allegramente su questa immensa tela bianca che crea la base di una pianura parallela a quella terrestre, ma che a differenza di quest’ultima che risulta essere un quadro dipinto dal susseguirsi delle sue stagioni e soprattutto dai suoi avvenimenti storici; la tela celeste sembra essere colma di un’atmosfera immutabilmente divina.
Con questo passaggio di stato, simile ad una sublimazione, la coscienza mi sussurra che il triste quadro dipinto al di sotto del cumulo di vapore, sia in realtà uno scenario raffigurato principalmente dal mio perturbato stato emotivo, nonostante il carattere opaco che comunque caratterizza la stagione invernale. Il paesaggio invernale, infatti, potrebbe esser percepito anche nella sua bellezza; ma in questo giorno singolare la percezione non dipende affatto dagli elementi distintivi di una stagione meteorologica, in quanto, tutto è filtrato dalla mia attuale stagione emotiva, che in questo preciso istante è determinata dall’esperienza di Auschwitz.

Primo Levi abbandonò la sua fede ebraica dichiarando che l’esistenza di Auschwitz fosse la totale negazione della presenza di Dio; qualche filosofo definisce Auschwitz la tomba di Dio e Joseph Ratzinger, invece, varcando i confini del campo, chiedeva conto a Dio del perché avesse taciuto davanti al lungo sterminio voluto da mano umana, e cosi chiedendo potremmo dire che definì Auschwitz: il silenzio di Dio. E’ comprensibile che ogni essere umano, una volta entrato in quella muraglia del crimine, cerca inevitabilmente una spiegazione, una definizione, un simbolo da assegnare all’insieme di un luogo, che a mio parere, non può assolutamente essere simboleggiato.
Se questo è un uomo
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.Primo Levi
03 Dicembre 2019 – ore 7:45
Il mio viaggio verso Oświęcim inizia con una silenziosa attesa: mi trovo alla stazione centrale di Cracovia e con scarsi risultati chiedo informazioni per sapere quale binario mi porterà a destinazione. Le persone a cui chiedo sono frigide come la gelida aria che respiro e molti di loro vanno di fretta. Appena arrivato in Polonia ho avuto la percezione di essere circondato da un popolo ferito, un popolo che ha subito un indelebile trauma e che oggi prosegue il cammino inerte ed inerme senza chiedersi se ciò che è stato ancora è, e se quindi determina la direzione del percorso intrapreso. Una volta trovato il binario giusto, il treno si fa attendere con un ritardo di oltre quaranta minuti, e nel frattempo il silenzio riscopre in me vaghi ricordi di una dimensione conosciuta soltanto attraverso i libri, anzi attraverso un libro: Se questo è un uomo.
“Ci caricarono sui torpedoni e ci portarono alla stazione […] vagoni merce, chiusi dall’esterno, e dentro uomini donne bambini, compressi senza pietà, come merce di dozzina, in viaggio verso il nulla, in viaggio all’ingiù, verso il fondo” scriveva Levi tra le prime pagine della sua opera memorialistica.
Oggi sarò io a salire sul vagone e mi dirigo nella stessa direzione in cui soltanto ottanta anni fa si dirigevano milioni di ebrei per essere crudelmente sterminati, ma a differenza dei deportati catturati dal potente braccio della violenza, la stessa direzione non mi porterà sicuramente alla stessa meta. Fra le quarantacinque persone del vagone in cui venne deportato Primo Levi, quattro soltanto tornarono salvi nelle loro case; e a quanto testimoniava lo stesso Levi: “fu di gran lunga il vagone più fortunato”.
Nel trascrivere la mia esperienza con meticolosa accortezza, ogni simbolo ragionato con il senno di poi, si colma di molteplici significati che veicolano contenuti strettamente relazionati alla tragedia di Auschwitz. Tra i primi segnali, una volta arrivato sul piazzale antistante l’ingresso al Lager, vi è la fila: l’attesa mi perseguita, ma questa volta sono collocato dentro al lungo serpente umano e in compagnia di centinaia di persone da ogni parte del mondo. Siamo tutti in fila per passare i controlli, ed in lontananza intravedo dei poliziotti di fredda e robusta costituzione che perquisiscono minuziosamente e senza sosta ogni individuo. Osservando gli agenti nell’atto di “perquisizione rigida” dei turisti, emerge in me improvvisamente l’immagine delle SchutzStaffel (meglio conosciute con l’acronimo di SS) e della loro bestiale rigidità. In realtà tale prassi non ha niente a che fare con l’organizzazione paramilitare del Partito Nazionalsocialista Tedesco, anzi, sembra quasi inevitabile visto che nel 2020 esistono ancora fanatici nazisti che minacciano l’incolumità del memoriale.
La fila in cui mi trovo continua a generare in me diversi impulsi capaci di legarsi a contenuti di significato ben saldi nella mia mente e che risultano essere ben connessi alla dimensione Auschwitziana. Ciò che affiora infatti sono le diverse file fatte dai detenuti una volta immatricolati all’università del “non ente” e la loro comune attesa accordata alla consapevolezza di dissolversi in esso. Le immagini mi portano alla fila che fecero per entrare nel vagone che li deportava dritti verso la morte; quella in cui venivano violentemente separati dai propri cari per non veder più i loro volti; la fila dove venivano tosati alla pari di bestie e poi matricolati analogamente alla merce di mercato; la fila in cui dovevano disfarsi di tutti gli averi, gli stessi oggetti di uso quotidiano capaci di mantenere viva in loro la memoria; e ancora la fila per l’appello, quella per essere ricoverati in infermeria, o quella per ricevere la misera razione di zuppa giornaliera.
Attraverso lentamente i controlli e mi ritrovo nuovamente all’aperto, sono quasi all’interno del recinto e già tutto mi sembra ghiacciato. Incamminandomi a passo flemmatico leggo in lontananza l’insegna ARBEIT MACHT FREI sotto la quale migliaia di prigionieri passavano ogni giorno per andare dritti incontro alla morte. Agli occhi di un grottesco illetterato potrebbe apparire come un banale motto, oppure un semplice cancello decorato da un’insegna, o addirittura l’entrata di un regolare campus; di conseguenza costui non sentirebbe nessuna particolare emozione dinanzi a tale scritta, ma in realtà quel passaggio è talmente sporco di “sangue” che anche il bambino più innocente del pianeta capirebbe che si tratta dell’ingresso agli inferi.

Gli elementi principali su cui si fondava il nazismo erano l’odio, la violenza e la folle convinzione della superiorità del popolo tedesco sugli altri popoli, in primis sull’antico popolo senza terra: gli ebrei. Per tutto il periodo della sua esistenza (1933-1945) la Germania Nazista, ispirata completamente una insana ideologia nazionalista e populista, razzista e totalitaria, generò morte e violenza nei confronti delle categorie di persone ritenute, dagli stessi esecutori, “indesiderabili” o “inferiori” per motivi politici o razziali. Oltre agli ebrei, furono vittime di crimini tutti prigionieri di guerra sovietici, gli oppositori politici, gli omossessuali, le minoranze etniche come rom e sinti e diversi gruppi religiosi.
Nel 1941 le autorità del Terzo Reich si decisero alla “soluzione definitiva della questione ebraica”, e per dare forma concreta alla loro politica razzista decisero di convertire i campi di concentramento in campi di sterminio. Tra tutti i lager sparsi per l’Europa occupata dalla Germania Nazista, Auschwitz divenne il più grande centro di sterminio di massa del popolo ebraico. Nel periodo di esistenza del campo (14 giugno 1940 – 27 gennaio 1945) i tedeschi vi deportarono circa 1.100.000 ebrei di cui 900.000 furono uccisi nelle camere a gas subito dopo essere arrivati al campo (la sconcertante cifra era composta da tutti coloro che erano stati giudicati dai medici delle SS “non idonei” al lavoro, e nella maggior parte dei casi si trattava di donne incinte, bambini, malati, disabili ed anziani). I restanti 200.000 (cioè quelli ritenuti “idonei” al lavoro) furono costretti a lavori forzati, e nella maggior parte dei casi la quantità di cibo insufficiente, e al tempo stesso il duro lavoro, portava loro ad un deperimento dell’organismo. Molte donne, invece, furono scelte come cavie per esperimenti medici, ed erano segnate come “prigioniere per fini di sperimentazione”. La maggior parte di loro morì nel corso della vivisezione e quelle che sopravvivevano restavano mutilate o deteriorate dall’esperimento, per essere poi di conseguenza uccise nelle camere a gas.
L’estrema crudeltà manifestata dalla “macchina dell’uomo”, o meglio dire dall “uomo macchina“, è ben descritta dal nostro caro Levi nel breve testo a seguire:
“L’arbitro del nostro destino è un sottoufficiale per le SS. Ha a destra il Blockaeltester, a sinistra il furiere della baracca. Ognuno di noi, che esce nudo dal Tagesraum nel freddo dell’aria di ottobre, deve fare di corsa i pochi passi fra le due porte davanti ai tre, consegnare la scheda alla SS e rientrare per la porta del dormitorio. La SS nella frazione di secondo fra due passaggi successivi, con uno sguardo di faccia e di schiena giudica della sorte di ognuno, e consegna a sua volta la scheda all’uomo alla sua destra o all’uomo alla sua sinistra, e questo è la vita o la morte di ciascuno di noi. In tre o quattro minuti una baracca di duecento uomini è “fatta”, e nel pomeriggio l’intero campo di dodicimila uomini.”
Le migliaia di vittime selezionate a sangue freddo per essere uccise diabolicamente per asfissia venivano condotte nelle camere a gas dove un gruppo esanime di SS era pronto ad aprire i barattoli di Zyklon B, spargendo nell’ambiente i cristalli saturi di acido cianidrico. Una volta deceduti, i cadaveri venivano trasportati con dei carrelli su rotaie negli appositi forni crematori nei quali era possibile bruciare all’incirca 350 corpi al giorno. Tra il 1943 e la prima metà del 1944, quando giunsero nei Vernichtungslager i deportati dal ghetto di Varsavia e poi gli ebrei ungheresi, le enormi capacità di “smaltimento” dei forni crematori risultarono insufficienti agli occhi non vedenti dei nazisti, e per fare fronte alle necessità del momento, vennero di conseguenza create delle fosse di combustione nelle quali i cadaveri, cosparsi di benzina, bruciavano ininterrottamente.

“Tutti i sommersi che vanno in gas hanno la stessa storia” – insisteva Levi – “o per meglio dire, non hanno storia; hanno seguito il pendio fino al fondo, naturalmente, come i ruscelli che vanno al mare” […] “La massa anonima continuamente rinnovata e sempre identica, dei non-uomini che marciano e faticano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire veramente. Si esita a chiamarli vivi: si esita a chiamar morte la loro morte, davanti a cui non temono perché sono troppo stanchi per comprenderla”
Proseguo a passo lento valicando silenziosamente il cancello ed a pochi metri sulla mia destra leggo l’insegna: “orchestra del campo”. Dal tenebroso punto di vista dei nazisti, una decina di motivetti materializzati sotto forma di canzoni popolari, avevano il compito di dare il ritmo di marcia ai Kommando che uscivano all’alba dalle cuccette per rientrarci al crepuscolo. E’ assurdo come quell’insieme di note che difficilmente potremmo definire musica, scandiva ogni passo dei detenuti proprio nell’atto in cui venivano schiavizzati. Lo stesso Levi, ricoverato nel KA-BE (krankenbau) per un ferita al piede, descriveva bene l’assurdità di tale follia: “Quando questa musica suona, noi sappiamo che i compagni, fuori nella nebbia, partono in marcia come automi; le loro anime sono morte e la loro musica li spinge, come le fogli secche, e si sostituisce alla loro volontà.”
Il campo era una costante lotta per la vita, “la vita nel campo era vita di limbo”, e su quell’orlo dell’inferno ogni anima veniva ridotta a bestia. Tra i detenuti non vi era più legge morale, non vi era più fede ed ogni Dio si dissolveva nella smisurata fame cronica che torceva duramente i loro corpi; nelle loro menti svaniva ogni forma di pensiero e nei loro volti ogni segno di rivoluzione; l’idea di pace e liberazione si convertiva in chimera ogni qualvolta la si nominava e i loro nomi e le loro identità scemavano in un’accozzaglia di numeri incisi sulle loro pelli. Il numero tatuato sul braccio sinistro di Primo Levi era il 174 517, e fu il numero con cui venne battezzato come Häftling. Grazie alla sua “magnum opus”, oggi abbiamo la possibilità di comprendere che essere battezzato come detenuto significava: “dare battaglia ogni giorno e ogni ora alla fatica, alla fame, al freddo, e alla inerzia che ne deriva; resistere ai nemici e non aver pietà per i rivali; aguzzare l’ingegno, indurre la pazienza, tendere la volontà. O anche strozzare ogni dignità e spegnere ogni lume di coscienza, scendere in campo da bruti contro gli altri bruti, lasciarsi guidare dalle insospettate forze sotterranee che sorreggono le stirpe e gli individui nei tempi crudeli.”
Durante il periodo dell’Olocausto, furono costruiti altri campi annessi ad (Auschwitz I), tra cui il più vasto campo di sterminio che era chiamato Birkenau (Auschwitz II), il campo di lavoro di Monowitz (Auschwitz III), e circa altri 40 sotto-campi nei dintorni, costruiti tutti durante l’occupazione tedesca della Polonia. Quest’oggi avrò intenzione di visitare soltanto Auschwitz I, in quanto sono convinto che una simile e profonda esperienza vada vissuta a piccole dosi.
Oltrepassata la piazza dell’orchestra del campo mi trovo dinanzi ai primi Blocchi (il campo di Auschwitz era costituito da 28 blocchi e molti di essi erano fabbricati destinati alla sosta notturna dei detenuti. Ogni blocco avevano la capienza per circa 700 prigionieri, ma il loro numero raggiunse addirittura 1200 unità). Da qui inizia il mio percorso all’interno del lager, e nelle mie cinque ore di permanenza nel recinto, mi dirigo da un blocco all’altro senza fermarmi un solo attimo. In un regime di moto perpetuo sono trasportato dal dolore e dalla brama di addolorarmi. In me domina un profondo silenzio e la mente afflitta smette completamente di pensare, non elabora, non sviluppa e cade in un anomalo stato di “gelida osservatrice”. Sono soltanto gli occhi a guidarmi da una testimonianza all’altra, e il cuore invece “tace silenziosamente”. Tutte le immagini dei diversi blocchi sono interconnesse dal principio di atrocità e il potere più forte che hanno, è quello di sprigionare un inesauribile dolore. Mi accorgo che il mio intuito collocato in una modalità autolesionista, cerca le informazioni più velenose e lo fa per scandalizzarsi, affinché lo stesso intuito possa di conseguenza tracciare e marcare vistosamente i confini del bene e del male. “Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere, e chi rifiuta di essere scandalizzato è un moralista, il cosiddetto moralista“: così rispose Pasolini nella sua ultima intervista nel 1975, e forse, quest’oggi, ho preso troppo alla lettere le parole del grande registra.
Tuffarsi in queste fiamme per bruciarsi consapevolmente con il fuoco di Auschwitz è un atto che ritengo IN-DI-SPEN-SA-BI-LE. Ogni essere umano dovrebbe entrare in questa dimensione per toccare con gli occhi ciò che è stato affinché possa sentire meglio col cuore ciò che è. Il suono dell’orrore denominato Shoah, ovvero «tempesta devastante», è un suono capace di lasciare il segno, e se questo segno viene custodito nell’osservatorio della propria coscienza, sarà inesorabilmente capace di indicare un sentiero in cui l’orrore apparterrà soltanto all’ombra di un grigio passato. Camminare lo stesso suolo delle vittime uccise dall’odio razzista significa ascoltare il silenzio delle pietre e delle mura impregnate ancora del loro sangue, significa farsi penetrare dal freddo e dalla nebbia capace di ghiacciare le ossa, ed immaginare che lo stesso freddo colpiva ogni giorno migliaia di detenuti catturati da quel “mondo” che nei suoi anni di esistenza perse ogni suo significato etimologico.
“Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”Dante Alighieri – Inferno, canto ventiseiesimo
Il mio breve viaggio ad Auschwitz si chiude ancora con il silenzio, e uscito dalla “Camera a Gas – Crematorio I”, situato al di fuori del recinto del campo, mi dirigo lentamente verso il piazzale da cui sono entrato all’inizio del mio percorso. In un attimo di sosta, voltandomi indietro, mi rendo conto che sono rimasto completamente solo, e in compagnia della mia solitudine introspettiva nasce in me un forte ed esteso senso di gratitudine verso ogni aspetto della mia vita; una gratitudine simile a quella che provava Levi quando scriveva che “si ha sempre l’impressione di essere fortunati, che una qualche circostanza, magari infinitesima, ci trattenga sull’orlo della disperazione e ci conceda di vivere. Piove, ma non tira vento. Oppure, piove e tira vento: ma sai che stasera tocca a te il supplemento di zuppa, e allora anche oggi trovi la forza di tirar sera“.
Il termine gratitùdine [dal lat. gratitudo -dĭnis, der. di gratus «grato, riconoscente»] indica sul dizionario un forte sentimento di apprezzamento ed una pacata e gentile disposizione d’animo verso ciò che si ha o si avrà in dono. E’ difficile preservare un sentimento così prezioso in quest’era post-moderna dove al contrario predomina l’indifferenza che spesso tende a risolversi in un consumo compulsivo di cose e persone. Purtroppo la nostra società è sempre più ingrata ed indifferente, e nella maggior parte dei casi, l’indifferenza nutrita dall’ignoranza, diventa intolleranza che a sua volta rischia di diventare odio, ed ogni qualvolta che quell’odio si trasforma in morte e violenza; allora Auschwitz riprende vita.
Nonostante tutto il male vissuto, i superstiti dell’olocausto possono insegnarci bene come preservare il valore della gratitudine, in quanto posseggono l’autorevolezza per cambiare in noi il metro di misura, e la forza gravitazionale capace di riportarci con i piedi a terra e ritrovare il lume che ci faccia apprezzare consapevolmente la libertà che, oggi, abbiamo in dono.
La storia non smetterà mai di mostrarci come preservare questo sentimento, sta a noi decidere se cogliere a fondo il messaggio e contrastare tenacemente ogni minaccia alla nostra libertà, o proseguire il cammino alla cieca ripercorrendo gli stessi percorsi deleteri del passato. Molto probabilmente Primo Levi risvegliò il suo senso di gratitudine dopo aver instaurato un contatto diretto con la morte, ma non esitò a dargli concretamente importanza quando scriveva: “abbiamo appreso il valore degli alimenti; ora anche noi raschiamo diligentemente il fondo della gamella dopo il rancio, e la teniamo sotto il mento quando mangiamo il pane per non disperderne le briciole […] Abbiamo imparato che tutto serve; il fil di ferro per, legarsi le scarpe; gli stracci, per ricavarne pezze da piedi; la carta, per imbottirsi (abusivamente) la giacca contro il freddo”.
04 dicembre 2019 – ore 7:50
Mancano dieci minuti all’atterraggio, l’aereo si trova ancora nella “sfera paradisiaca” al di sopra del cumulo di vapore ed i miei occhi sono ancora ancorati al finestrino. Il mio animo è più quieto e la mente è più pensante, ma dopo aver trascorso una giornata ad Auschwitz, mi sento comunque impossessato da uno strano stato di “traumatismo gratificante”. Questo stato non mi sembra per niente razionale, ma in realtà la ragione centra poco con quest’esperienza. Da una parte vi è la scossa di violenza patita all’interno del lager, dall’altra vi è la scossa di consapevolezza avuta all’uscita. Da una parte la mia anima piange per tutto ciò che ha veduto, dall’altra è grata per ciò che ha vissuto; ma spiegare concettualmente questo complesso emotivo è pressoché impossibile, sarebbe come spiegare ad un non vedente di che colore sono le foglie in autunno. L’aereo sta per atterrare a Berlino, e risvegliandomi dalla “periodica sospensione dello stato di coscienza“, mi guardo lucidamente attorno ed incontro lo sguardo del mio vicino di posto che inaspettatamente mi domanda in tedesco se fossi ad Auschwitz. Incredulo lo fisso negli occhi, e con voce fioca mi limito ad annuire; lui insiste chiedendomi con fermezza come fosse il campo e quali impressioni avessi avuto…
Nel cercare di rispondere dignitosamente alla domanda di quell’uomo, è nata in me la stessa criticità provata nel razionalizzare il mio stato emotivo post-auschwitz, e da questa duplice criticità vissuta ho tratto una duplice conclusione: la prima è che non vi sono parole reali per descrivere Auschwitz, in quanto concetti come “genocidio”, “massacro”, “orrore”, “crimine”, “terrore”, “male”, “inferno”, sono tutti concetti debitori alla vera realtà di quel luogo; la seconda è che non vi sono parole giuste per descrivere la mia esperienza emotiva ad Auschwitz, in quanto pochi sono i processi emotivi che riescono a convertirsi autenticamente in linguaggio verbale, e quelli che si son generati sullo stesso suolo delle vittime dell’olocausto, di sicuro non riusciranno mai a trovare parole che possano rispecchiare il loro vero significato.
Fabio Joel Tunno