Può sembrar cosa banale, ma non vi è nulla di più prezioso, per noi uomini, che il tempo. In realtà non è affatto banale perché la maggior parte di noi non è minimamente toccata da questa assoluta verità.
Mi sembra piuttosto che la ricchezza e il potere ci importino più della nostra stessa vita. Solo dopo averla quasi completamente sprecata ci accorgiamo di cosa abbiamo perduto, dei momenti che avremmo potuto dedicare a noi stessi, ai nostri più cari e alle persone che avrebbero potuto arricchirci, perciò ci rattristiamo e malediciamo noi stessi.

Per esser più chiari vorrei chiamare a mio soccorso il noto filosofo romano Lucio Anneo Seneca che in più opere riprese questa fatalità, da “Epistulae morales ad Lucilium” al “De otio”. Sarà stato banale parlarne anche duemila anni fa, ma anche allora era abitudine di tutti ignorare le cose più utili, per dar spazio a cose ben più materiali.
In particolare nel “de brevitate vitae”, S. rivela che non è in realtà il tempo che scorre troppo velocemente o la nostra vita troppo corta, ma che siamo noi stessi a gettare ogni minuto nel cestino consolandoci con l’illusione che vivremo per sempre. Lui come altri stoici, tra cui Zenone e Marco Aurelio, credette infatti che bisognerebbe imparare prima a morire per poter aspirare alla vita, o addirittura prolungarla anziché dimezzarla.
La vera domanda è: in che modo si spreca la propria vita? Secondo Seneca, lasciando ogni nostra azione nelle mani della Fortuna. Quello che facciamo non deve dipendere da altro che da noi stessi. Sono le occupazioni più opprimenti che non ci permettono di poter essere liberi di vivere come vogliamo ma solo di sognare quello che vorremmo fare (“otium numquam agetur, semper optabitur”)1. Dunque sarà la Fortuna a decidere cosa fare della nostra vita, lasciandoci in bocca nient’altro che il sapore amaro del rimpianto.

Tuttavia gli affaccendati, invece di accorgersi della fugacità del presente (“praecipitis fugae transitus”)2, si impelagano sempre più sino all’autodistruzione, come capita a uno dei personaggi di Giovanni Verga, Mastro don Gesualdo Motta.
Il romanzo, pubblicato nel 1889, è una componente del “ciclo dei vinti”, vinti da chi? Dalla Fortuna! (“la corrente…)3a, perché i personaggi principali sono (…deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati”)3b corrotti dall’ambizione al punto di dimenticarsi che la totalità dei fattori esterni è incontrollabile e imprevedibile.
“Mastro don Gesualdo” racconta della scalata sociale del protagonista da semplice muratore a imprenditore, dalla nomina di “mastro” a quella di “don”, che comporterà per tutta la sua vita una serie di conseguenze e un inevitabile declino (“omne enim quod fortuito obvenit instabile est; quod altius surrexerit, opportunius est in occasum”)4.
Una vita fondata sull’accumulo di “roba”, un’ambizione sempre più sfrenata e senza obbiettivi precisi e che si moltiplicano lungo la strada (“novae occupationes veteribus substituuntur, spes spem excitat, ambitionem ambitio”)5, disposta a distruggere il prossimo (“al giorno d’oggi l’interesse va prima della parentela”)6 e che non trova freno se non poco prima della fine.

La fine di Gesualdo Motta è quella che caratterizza i “vinti” di Verga: si ammalerà di cancro, la moglie Bianca Trao, che aveva usato semplicemente per la sua scalata sociale, morirà di tisi e verrà abbandonato dalla figlia Isabella perché incapace di instaurare un rapporto con lei.
Come coronamento di una vita dedicata interamente al lavoro tutti i suoi beni verranno sperperati dal suocero.
(“Disperato di dover morire, si mise a bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui”)7
Caro lettore, mi scuso per la mia apparente presunzione o aggressività ma tali sensazioni sono state da me inspirate volontariamente con l’intento di provocare e denunciare la propensione di molti a scartare a priori le virtù e soprattutto contestare la società moderna, che più di altre nel passato, è diventata carnefice di uomini e creatrice di bestie.
Simone Marsiglia
- Seneca, De brevitate vitae, “il tempo libero non sarà mai una realtà, sarà sempre un sogno” (BUR, A.Traina, 2017), XVII, 6.
- Seneca, Epistulae morales ad Lucilium, “il passaggio di una fuga precipitosa”, XLIX,2.
- Verga, I Malavoglia, pref.
- Seneca, De brevitate vitae, “tutto ciò che avviene per caso è instabile; ciò che si è levato più in alto è più esposto alle cadute” (BUR, A.Traina, 2017), XVII, 4.
- Seneca, De brevitate vitae, “nuove faccende subentrano alle vecchie, una speranza, un’ambizione ne risveglia un’altra” (BUR, A.Traina, 2017), XVII, 4.
- Verga, Mastro don Gesualdo, cap.LVI.
- Verga, Mastro don Gesualdo, cap.CDXCVII