Siamo pronti per un mondo senza lavoro?

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Se c’è un’ideologia che si è rivelata in grado di superare a pieni voti la prova del tempo, è senza dubbio quella del lavoro. La diffusa convinzione secondo cui gli esseri umani debbano riversare una parte consistente del proprio tempo di vita — se non la massima parte — nello svolgimento di un’attività produttiva per provvedere al proprio sostentamento, nobilitare il carattere e contribuire al più generale progresso — non soltanto materiale ma anche spirituale, secondo il dettato della carta costituzionale dello Stato italiano — della comunità è radicata a una profondità tale da configurarsi come una specie di filosofia totalizzante e insindacabile, la vera e propria grundnorm del nostro tempo.

L’inevitabilità del ricorso al lavoro ha rappresentato — e continua a rappresentare — un collante ideologico capace di intersecare istanze di ogni colore politico. A cavallo tra il XVII e XIX secolo, l’esaltazione — nella stragrande maggioranza dei casi acritica — del lavoro come valore fondamentale e inalienabile ha istituito una vasta zona di intersezione nel dibattito pubblico, accomunando le visioni di capitalisti e proletari, contadini e imprenditori, liberali e socialisti, fascisti e comunisti; del resto, come evidenzia Gianfranco Bertagni, volgendo lo sguardo (parecchio!) a ritroso, è la stessa lettera viva della Bibbia a sottolineare come, sin dal momento della sua creazione, l’uomo sia stato definito a partire dalla tipologia di azione che esercita sulla natura, dalla sua innata capacità di manipolarla per asservirla alle ragioni della tecnica e ricavarne un qualche tipo di beneficio materiale: «Siate fruttiferi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, e dominate sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e sopra ogni essere vivente che si muove sulla terra» (Genesi, 1, 28).

Parlando al presente, neppure le defezioni proprie della congiuntura socioeconomica attuale, dominata dai prodromi della catastrofe ambientale, dall’avanzare della precarizzazione, dai crescenti dubbi posti dall’automazione delle professioni e dalla consolidazione della sharing economy e del capitalismo delle piattaforme, in cui le start up e la tecnologia sembrano ricreare continue occasioni utili per consentire agli individui di trasformarsi in «imprenditori di se stessi» — salvo poi infilarsi tra le maglie della deregolamentazione per creare nuove risacche di lavoratori borderline, sottopagati e invisibili agli occhi della legge — sembrano costituire elementi idonei a fornire le premesse per una (radicale) riconsiderazione critica delle nostre coordinate economiche, sociali ed esistenziali: la vendita di forza-lavoro continua a costituire il fulcro essenziale di ogni narrazione politica, presente e futura. Eppure, benché la coincidenza tra tempo di vita e tempo di lavoro sia sempre più accentuata, è ormai evidente come quest’ultimo non sia più in grado di garantire integrazione sociale e diminuzione delle disuguaglianze: pensiamo a come i rapporti annuali dell’Oxfam ci abbiano abituati a introiettare litanie pessimistiche, come il triste ritornello «L’1% più ricco della popolazione mondiale possiede più risorse del resto del mondo».

A ben guardare, l’orizzonte che ci viene posto di fronte è, sempre e comunque, un orizzonte di distopia: perpetuare tacitamente i rapporti di forza (necessariamente) asimmetrici tipici del lavoro salariato, rifuggire al ricatto accettando di subire lo stigma sociale dell’inoccupato, tentare di mettere assieme il pranzo con la cena sfruttando le meravigliose opportunità fornite dall’economia del lavoretto (dei Bullshit Jobs, per dirla con il compianto David Graeber) o, nel peggiore dei casi, morire di fame. Qualcosa non dev’essere andata per il giusto verso se, già nel 1999, nell’avveniristico Manifesto contro lavoro, il Gruppo Krisis ammoniva che: «La vendita della merce forza-lavoro sarà nel ventunesimo secolo tanto ricca di prospettive quanto nel ventesimo la vendita di diligenze. Ma chi in questa società non riesce a vendere la sua forza-lavoro è considerato superfluo e finisce nelle discariche sociali».

Manifesto contro il lavoro, Gruppo Krisis, 1999

Da questo punto di vista la fortunata formula Realismo capitalista, coniata dal critico culturale inglese Mark Fisher (che, non a caso, ha consacrato gran parte della propria elaborazione intellettuale al tema della slow cancellation of the future) ha finito per assumere una valenza quasi profetica: attraverso la consolidazione del proprio paradigma interpretativo, Fisher ha scavato un solco profondo nell’ambito del dibattito intellettuale contemporaneo, tratteggiando il volto rassegnato di un’epoca in cui l’accettazione acritica dello status quo capitalista ha finito per fagocitare l’immaginario occidentale nella sua interezza, vanificando ogni rimasuglio di speculazione su un possibile avvenire alternativo, finalmente slegato da quella fiducia cieca nel libero mercato che, a partire dalla consolidazione dell’asse neoliberista Tatcher-Reagan in avanti, ha costituito il minimo comune denominatore dell’agire politico degli ultimi cinquant’anni. (insomma, per dirla con Ballard, «Il futuro è morto, e noi siamo sonnambuli in un incubo»; per dirla con Margareth Tatcher, «There is no alternative»).

Guardando quanto accade all’interno dei nostri confini, le preoccupazioni palesate dal sindaco di Milano Beppe Sala, impegnato da mesi in una rigorosa offensiva volta a stroncare sul nascere l’euforia da smart working, ricacciando lo spauracchio di quell’insidioso «effetto grotta» che, a suo dire, potrebbe finire per intaccare irrimediabilmente lo stile di vita frenetico e ad alto tasso di produttività proprio del milanese idealtipico (che, disgraziatamente, potrebbe persino rendersi conto di poter impiegare il proprio tempo in attività che non prevedono l’estrazione di un qualche tipo di valore o la messa in moto della giostra dei consumi), sembrano fornire sostanza alle spaventose intuizioni di Fisher: se nell’alveo della sinistra non c’è più spazio neppure per ridiscutere parzialmente le fondamenta dell’esistente, figurarsi per un’innocente utopia anti-lavorista!

Eppure, anche se sembra essersi imposta come una sorta di legge naturale, questa visione del mondo si pone in completa antitesi con la concezione prevalente nella quasi totalità delle società tradizionali. Ad esempio, nel suo pamphlet L’economia dell’età della pietra, Marshal Sahlins spiega come gli aborigeni australiani della Terra di Arnhem e i Boscimani del Kalahari dedicassero al tempo della redditività — ossia della caccia e della raccolta — non più di tre o quattro ore al giorno: i bisogni venivano volontariamente limitati, la produzione era interrotta da frequenti momenti di stasi e riposo, i bambini e i giovani partecipavano soltanto tangenzialmente alle attività economiche (un apporto vicino allo zero) e, soprattutto, il tempo dell’inoperosità occupava la maggior parte della giornata. A tal proposito, Pierre Clastres (che ha curato la prefazione alla prima edizione dell’opera) spiega che: «Aborigeni australiani e Boscimani, quando stimano di avere raccolto sufficienti risorse alimentari, smettono di cacciare e di raccogliere. Perché stancarsi a raccogliere quello che non si può consumare? Perché degli individui nomadi dovrebbero affaticarsi per trasportare inutilmente da un luogo all’altro pesanti provviste quando, come dice Sahlins, «le scorte sono nella natura stessa»? Ma i selvaggi non sono sprovveduti come gli economisti formalisti che, non trovando nell’uomo primitivo la tipica psicologia di un manager, preoccupato di aumentare senza posa la produzione per incrementare il suo profitto, ne deducono stoltamente l’inferiorità intrinseca dell’economia primitiva. È quindi salutare la ricerca di Sahlins, che con grande pacatezza smaschera questa «filosofia» che fa del capitalista contemporaneo l’ideale e la misura di tutte le cose. Ma che sforzi, nondimeno, per dimostrare che se l’uomo primitivo non si comporta un manager, è perché non gli interessa il profitto; che se non «fa rendere» la sua attività, come amano dire i pedanti, non è perché non sa farlo, ma perché non ha voglia di farlo». Per questa via, Sahlins e Clastres hanno dimostrato che le economie che soliamo definire acquisitive o di sussistenza erano, in realtà, delle vere e proprie economie dell’abbondanza, strettamente regolate al fine di evitare la creazione surplus e, di conseguenza, di disuguaglianza, smontando il luogo comune secondo cui esseri umani e lavoro sarebbero legati da un vincolo di natura: le esigenze dell’accumulazione occupavano un ruolo di secondo piano e il lavoro non veniva concepito come un fattore nobilitante, ma come una forma di assoggettamento alla necessità da ridurre al minimo indispensabile.

I cacciatori-raccoglitori riservavano alla produttività un monte ore notevolmente inferiore rispetto ai moderni lavoratori (sindacalizzati e non) dell’industria, i cui ritmi di lavoro massacranti indussero Paul Lafargue a concettualizzare il suo celebre Diritto alla pigrizia (1883), in cui il genero di Karl Marx sottolineava come, recuperando una dimensione del vivere inestimabile come quella dell’otium, la classe operaia avrebbe potuto individuare un efficace antidoto all’alienazione, curando lo sviluppo di quelle potenzialità umane che il dominio capitalistico stava reprimendo a suon di lavoro a cottimo e premi di produzione (per chi volesse, ne ho scritto qui).

Nella preziosa antologia Stanchi del lavoro. Apologie dell’ozio, Giulio De Martino evidenzia come, a partire dal XVI secolo, il concetto di otium sia stato interessato una mutazione radicale, subendo uno slittamento semantico che lo ha trasformato in un sinonimo di pigrizia, mollezza e naturale predisposizione alla nullafacenza: «Nell’età moderna, l’ozio è diventato l’appendice negativa del lavoro, la sua ombra inquietante. Non si potrà più ragionare sull’ozio senza prendere in esame il lavoro, la sua durata, la sua qualità». Con l’avvento del razionalismo, dell’Illuminismo e della rivoluzione industriale, la nuova tavola dei valori morali comincia a venire dettata dall’economia politica e l’ozioso diventa, così, «lo scansafatiche, il fannullone, il disoccupato, addirittura il povero (inteso come colui che si sottrae al lavoro per vivere di espedienti): insomma ozioso è chi non lavora allegramente, chi non si dà da fare per guadagnare e quindi non è conforme alla morale della laboriosità, dell’arricchimento e del disciplinamento economico‐industriale dell’esistenza». De Martino scrive nel 2007 ma, allo stadio attuale, la tendenza alla messa in produzione dell’intero tempo vitale del lavoratore, che rimane soggetto del processo produttivo ad infinitum, riversando (il più delle volte inconsapevolmente) il proprio tempo libero nell’appassionato infoltimento dei profitti dell’industria dell’intrattenimento, del turismo e della ristorazione è esacerbata: i tempi morti sono stati letteralmente aboliti dalla cristallizzazione del cosiddetto ozio produttivo, e i ritmi imposti da una società incentrata sulla performance e sull’ansia da prestazione ci hanno indotti, giocoforza, a sottostimare l’importanza del tempo da dedicare alla riflessione e alla non redditività. Anche quando assumiamo le vesti di consumatori di servizi gratuiti, scrollando svogliatamente lo schermo del nostro smartphone, stiamo vendendo inconsciamente un quantum di forza lavoro (nello specifico, porzioni della nostra identità digitale). Come aveva già intuito Guy Debord con una puntualità disarmante in un pregevole passaggio de La società dello spettacolo: «nel suo settore più avanzato il capitalismo concentrato si orienta verso la vendita di blocchi di tempo “completi di tutto”, ciascuno dei quali costituisce una sola merce unificata che ha integrato un certo numero di merci diverse. Si vede così apparire nell’economia in espansione dei “servizi” e del “tempo libero”, il pagamento calcolato secondo la formula del “tutto compreso”, per l’habitat spettacolare, per gli pseudo-spostamenti collettivi delle vacanze, per l’abbonamento al consumo culturale e per la vendita della socialità stessa in “conversazioni appassionanti” e “incontri con personalità”». Il tempo libero è poco più di una chimera, un non-lavoro che esiste soltanto in funzione del lavoro, e l’erosione del confine tra tempo della non redditività e tempo della produzione è il vero e proprio core business del tardo-capitalismo contemporaneo: per chi volesse approfondire, lo raccontano molto bene Davide Mazzocco nel suo libro Cronofagia. Come il capitalismo depreda il nostro tempo, edito da D Editore e, prima di lui, Jean-Paul Galibert in I cronofagi. Sette principi dell’ipercapitalismo.

Cronofagia, Davide Mazzocco, 2019, D Editore

Eppure, dall’affermazione dell’asse Tatcher-Reagan in avanti, le proposte di segno opposto, volte alla sperimentazione (seppur embrionale) di forme di vita post-economiche (o, volendo esagerare, addirittura post-lavoriste), non sono di certo mancate: nel 1992 — lo stesso anno di pubblicazione di un testo seminale per la consolidazione dell’ideologia neoliberale come La fine della storia e l’ultimo uomo di Francis Fukuyama — Nautilus mandava in stampa l’edizione italiana de L’abolizione del lavoro (1986), il pamphlet più celebre del pensatore anarchico Bob Black, influenzato dall’eredità dell’Internazionale Situazionista, dagli scritti del summenzionato Paul Lafargue (il diritto alla pigrizia viene citato esplicitamente) e dal neo-marxismo americano degli anni Sessanta. Per definire l’alternativa al lavorismo e al consumismo, Black ricorre all’efficace metafora del gioco (PlayGame) o della ludic conviviality (convivenza giocosa): nell’orizzonte concettuale di Black, il gioco si configura come una forma di azione che si pone al di là delle dicotomie a partire dalle quali il capitalismo trae la propria forza legittimante (lavoro-pigrizia e consumo-alienazione), per esplorare un modo di esistere radicalmente umano e creativo, in cui l’ozio torna a costituire una dimensione del vivere essenziale e non negoziabile: «Nessuno dovrebbe mai lavorare. Il lavoro è la fonte di quasi tutte le miserie del mondo. Quasi tutti i mali che si possono enumerare traggono origine dal lavoro o dal fatto che si vive in un mondo finalizzato al lavoro. Per eliminare questa tortura, dobbiamo abolire il lavoro. Questo non significa che si debba porre fine ad ogni attività produttiva. Ciò vuol dire invece creare un nuovo stile di vita fondato sul gioco; in altre parole, compiere una rivoluzione ludica. Nel termine «gioco» includo anche i concetti di festa, creatività, socialità, convivialità, e forse anche arte. Per quanto i giochi a carattere infantile siano già di per sé apprezzabili, i giochi possibili sono molti di più. Propongo un’avventura collettiva nella felicità generalizzata, in un’esuberanza libera ed interdipendente». Cinque anni dopo, Feltrinelli pubblicò Società senza lavoro. Per una nuova filosofia dell’occupazione, il libro-manifesto di Dominique Méda, in cui la sociologa francese metteva in discussione il lavoro come categoria antropologica e la conseguente riduzione dell’essere umano a mero homo oeconomicus: «La riduzione del ruolo del lavoro nelle nostre vite, che dovrebbe tradursi in una diminuzione del tempo di lavoro individuale, è la condizione sine qua non perché si sviluppino, accanto alla produzione, altri modi di sociabilità, altri mezzi di espressione, altre maniere, per l’individuo, di acquisire un’identità o partecipare alla gestione collettiva, in breve: un vero spazio pubblico». Tuttavia, si è trattato perlopiù di dichiarazioni d’intenti, certamente essenziali per riportare il tema della riscoperta dell’ozio nell’ambito di un discorso pubblico colonizzato dall’ineluttabilità dei dettami del «lavora, produci, consuma, crepa», ma al tempo stesso prive di una compiuta progettualità programmatica e comunque pesantemente sottostimate da una sinistra rea di avere abbandonato ogni progetto di egemonia ed espansione, arroccata su posizioni nostalgiche e filo-lavoriste e, in definitiva, intrappolata in una congiuntura psichica simile a quella che Simon Reynolds ha definito, a ragione, Retromaniadedita al pastiche e al continuo rimaneggiamento dei modelli passati.

Retromania, Simon Reynolds, 2010

Per fortuna, nell’ultimo decennio qualche slancio di utopia sembra aver trovato il proprio posto tra gli strettissimi interstizi del realismo capitalista, e i temi della liberazione dal lavoro e del diritto all’ozio sono tornati in auge anche al di fuori delle assemblee e dei think-thank universitari: ad esempio, l’azzeramento delle ore di lavoro è uno dei corollari che Paul Mason, nel suo eccellente saggio Postcapitalismopone a fondamento del superamento dello status quo neoliberale, unitamente al reindirizzamento dell’automazione (che, effettivamente, ha ridotto come mai prima le ore di lavoro) e alla previsione di un reddito minimo garantito di emancipazione. Non dovesse bastare, potremmo pensare all’ambizioso progetto di una nuova sinistra che metta da parte ogni tentazione luddista (vedendo nella tecnologia un fattore di liberazione, non di oppressione; un retroterra teorico che affonda le radici in un’interpretazione tecno-ottimista del Frammento sulle macchine di Karl Marx), anti-lavorista e futuribile enucleato da Nick Srnicek e Alex Williams nel saggio Inventing the future (tradotto da Nero edizioni con il titolo Inventare il futuro). La proposta degli autori del Manifesto accelerazionista è sintetizzabile in pochi punti cardine, che riecheggiano la linea teorica di Mason (automazione totale, successiva liberazione dal lavoro e — di nuovo — predisposizione di un reddito universale di base irrinunciabile), delineando i tratti essenziali di una strategia contro-egemonica volta a instradare la sinistra sui sentieri di una compiuta emancipazione da ogni velleità nostalgica, ponendola finalmente nella condizione di svincolarsi dal particolarismo, dal localismo e dalla «mentalità da fortino assediato» propri delle cosiddette folk politics (che potremmo restituire in italiano con politiche dal basso o orizzontaliste, anche se in maniera un po’ imprecisa), a detta degli autori accomunate dal limite di rispondere al senso comune neoliberale dominante unicamente sotto forma di reazione, senza andarne a scuotere gli elementi costituitivi (come nel caso dei fallimenti inanellati da Occupy Wall Street), accontentandosi di risultati soltanto parziali o circoscritti ad ambiti spaziali piuttosto ristretti.

Retromania, Simon Reynolds, 2010

Di reddito di base parlano diffusamente anche Federico Chicchi e Emanuele Leonardi nel loro Manifesto per il reddito di base, configurandolo (similmente a Srnicek e Williams, che però ne prevedono un’effettiva estensione globale) come un «trasferimento monetario incondizionato, finanziato per via fiscale, erogato a tutte e tutti i residenti in una determinata comunità politica, spendibile sulla base delle preferenze dei destinatari, volto ad assicurare una somma di denaro sufficiente e a condurre un’esistenza autonoma e degna». In ambedue i casi, non si tratterebbe di una generica misura di contrasto alla povertà (come il reddito di cittadinanza grillino), quanto piuttosto di uno strumento di lotta alle nuove forme di precarietà rese possibili da un quarantennio di socializzazione dei costi e privatizzazione degli utili e dalla proliferazione incontrollata della sharing economy e dal capitalismo delle piattaforme, che preservi la libertà di scelta (in particolare, quella di non intraprendere professioni alienanti e degradanti in cambio di salari da fame) e da non considerarsi in alcun modo alternativo al welfare tradizionale, ma ad esso complementare. Non si tratta di castelli in aria, ma di proposte che stanno progressivamente individuando spazi di possibile attuazione: il referendum sul reddito incondizionato di base tenutosi in Svizzera nel 2016, seppur non legittimato dal voto degli aventi diritto, ha dimostrato che quest’idea ha cessato di venire considerata una forma di eresia politica, ma è entrata a far parte del dibattito pubblico (per chi volesse, qui è possibile visitare il sito italiano del Basic Income Network).

Manifesto per il reddito di base, Federico Chicchi e Emanuele Leonardi, 2018, Laterza

Il reddito di base costituirebbe un’arma di livellamento sociale importante, un passo in avanti verso l’acquisizione della piena libertà dal bisogno, poiché contribuirebbe a svincolare il diritto a una vita dignitosa dall’acquisizione dello status di lavoratore salariato, liberando dalla morsa del lavoro un quantitativo di tempo inestimabile: autosufficienti, liberi dal ricatto dal salario e finalmente immuni da quell’invincibile senso di colpa tipico degli inoccupati, potremmo essere finalmente capaci di recuperare il nostro diritto all’ozio, sperimentare forme alternative di operosità (magari non salariate, ma non per questo socialmente inutili), investire un importante monte ore nella lettura, nella strutturazione del pensiero, nell’attività fisica, nella preservazione del bioritmo e del benessere psicofisico e, chissà, addirittura spendere qualcosina in meno in psicofarmaci e stabilizzatori dell’umore. Certo, gli ostacoli non mancano, in primis perché il finanziamento di una misura del genere dovrebbe passare, giocoforza, dalla tassazione delle grandi rendite digitali. Tuttavia, parafrasando Srnicek e Williams: «Le utopie sono l’incarnazione delle iperstizioni di progresso: ci impongono la realizzazione del futuro, costituiscono un impossibile ma necessario oggetto di desiderio, e ci forniscono sia un linguaggio di speranza che lo stimolo a un mondo migliore».

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