Rapporto filosofia-retorica e avversione ai filosofi contemporanei
Quintiliano dibatte nell’institutio oratoria sul rapporto retorica-filosofia, come già avvenuto nella tradizione greca e latina. Egli, nel proemio dell’opera, contrappone la funzione formativa dello studio della retorica alla filosofia, utilizzando la forma del trattato e non del dialogo, per evidenziare l’indiscutibilità della sua tesi. Seguendo il pensiero isocrateo-ciceroniano, Quintiliano afferma che la filosofia sia una delle scienze facenti parte della cultura enciclopedica del buon oratore, e crede che solo la conoscenza dell’arte dell’eloquenza permetta il dibattito filosofico. Egli, inoltre, proclama il primato della retorica, dal momento che i filosofi del suo tempo, a suo avviso, si siano macchiati di comportamenti immorali, fingendo di occuparsi di virtù. Tale avversione è giustificata, non tanto dalla rivalità sulla formazione dei giovani, ma quanto più dalla sua adesione alla politica degli imperatori flavi, protagonisti delle persecuzioni dei filosofi, considerati pericolosi per la propaganda del dissenso, e dunque d’intralcio per la formazione dei nuovi retori che avrebbero dovuto diffondere l’ideologia imperiale e servire lo Stato in modo conformistico.
Studio dell’eloquenza
Quintiliano, forse per la prima volta, dimostra assoluta assenza di prospettiva storica nello studio della crisi dell’eloquenza, poiché egli ripropone modelli legati alle condizioni storico-politiche repubblicane ormai non più attuabili sotto il principato. Egli dona all’oratore perfetto abilità di retorica tali da orientare il Senato ed il popolo, fingendo che essi abbiano ancora potere decisionale. Egli prova a celare ideologicamente il nuovo regime.
L’oratore come “Vir bonus dicendi peritus”
Quintiliano crede che il perfetto oratore debba avere eccellenti qualità morali (moderazione, disciplina, senso della misura) e debba, inoltre, prediligere il bene pubblico a quello privato. Ma, dal momento che lo Stato nel principato si identifica col principe, l’oratore deve collaborare con il regime, senza alcuna possibilità di svincolarsi, anche in condizioni di assenza dei presupposti per una pacifica collaborazione.
L’insegnamento collettivo come mantra
Quintiliano spiega che la partecipazione ad un insegnamento collettivo possa giovare in termini di educazione, non solo nozionistica. Egli crede che il bambino, in quanto futuro oratore, debba abituarsi alle relazioni sociali per non imbattersi, in futuro, in problemi di timidezza. Studiare in gruppo permette alla mente di non arrugginirsi ed evita un’eventuale pretesa di superiorità, probabile risultato del mancato confronto con il gruppo. Il bambino apprende dunque il senso comune e tutto ciò che viene insegnato, non solo a lui, ma a tutto il gruppo (la gravità della pigrizia e il riconoscimento della diligenza). Inoltre l’insegnamento collettivo permette che il bambino emuli chi primeggia, creando così una sana competizione che lo stimoli a non essere inferiore ad un suo pari e a superare i migliori. Diventa necessario, per giunta, che il bambino si riservi del tempo per elaborare gli insegnamenti ricevuti, rendendosi autonomo da un maestro privato.
Le punizioni corporali
Quintiliano crede che la diffusione di uno stato di terrore nei bambini, tramite le punizioni corporali, non debba far parte degli strumenti educativi del buon maestro. Le punizioni corporali violano la dignità di un uomo libero, indipendentemente dalla sua età, e non sono nient’altro che un modo per evitare di correggere gli errori di un bambino tramite una spiegazione, che seppur sia più impegnativa, essa viene compensata dalla produttività che ne deriva. Un bambino, vittima delle punizioni, diventerà un uomo insicuro e dunque violento. Per Quintiliano era impensabile che questo potesse essere un diritto degli adulti ai suoi tempi.
Funzioni e caratteristiche del maestro ideale
Il maestro ideale, secondo Quintiliano, dev’essere:
1) dal punto di vista professionale, un buon osservatore in grado di comprendere, tramite test, le capacità e il carattere dei suoi alunni. Fatto questo, il maestro deve impostare un lavoro didattico individuale, adatto alle caratteristiche di ognuno dei suoi alunni.
2) dal punto di vista morale, paziente, disponibile e pronto al dialogo. Egli non deve avere né sopportare difetti; deve saper regolare la sua cordialità per evitare antipatia o mancanza di rispetto; deve parlare spesso del bene e dell’onestà; deve essere calmo, ma giudizioso laddove ci sono errori da correggere; deve insegnare in maniera chiara e pretendere sempre in maniera equilibrata; deve stimolare la curiosità e soddisfarla allo stesso tempo; deve essere misurato nella valutazione per evitare l’odio verso lo studio o la pigrizia; deve concedere un intervallo né troppo lungo né troppo corto da dedicare al gioco per osservare l’indole degli alunni.
Ma, soprattutto, il maestro deve porsi nel ruolo affettivo di padre, che sostituisce nel momento di insegnamento. E tale rapporto sarà sempre più fertile quanto più gli alunni lo permettano, creando le condizioni necessarie al compito da svolgere del maestro.
Fondatore della pedagogia
Quintiliano può essere considerato il fondatore della pedagogia perché ha ben spiegato nella sua opera i ruoli che devono ricoprire sia i maestri che gli alunni, non tralasciando l’importanza della presenza della famiglia ed evidenziando i vari vantaggi e svantaggi dell’insegnamento privato e collettivo. Ha inoltre tenuto conto del vero scopo della pedagogia, cioè la formazione di soggetti adatti allo sviluppo della società, che nel suo particolare caso coincide con la formazione dei nuovi retori per la diffusione degli ideali del regime.