Difficilmente un grande profilo viene tracciato con icastica rispondenza da chi, nel prosieguo della posterità viene investito dall’oneroso mandato di restituire presso gli attori del presente i proclari autori del passato; a fortiori ratione un nome risuona nel Tartaro dello scibile se esso, incoccato negli archi di numerosi scrittori e biografi viene inflazionato per alimentare una fuoco mitologico che gli scoppietta sovratraccia; in ciò, non sempre è sufficiente echeggiare le riboccanti leggende che circonfondono l’aria emessa da un nome pronunciato a bocca larga, per abbrancare anche solo un braccio dell’uomo, che in quel nome un giorno rivendicava un identità.
Ebbene, Pitagora è, nell’alveo della sua notoria rinomanza, forse l’antonomasia di tutta una lista di profili che, sono alla storia trapassati più come “apoteosi codificate” che come uomini eccelsi, di pari mestiere ad un eroe dell’epica, celato come fu dietro quel profluvio di letteratura misticheggiante, che ne ha preservato l’arcana memoria sotto il segno di una reverenda ipertrofia, a volte accoste alle imprese evangeliche o dalla cifra inoppugnabilmente religiosa e sacrale. E sotto una tale luce, che lascia cadere dietro di sé sterminate ombre, ove la rutilanza della sua straordinaria biografia tace, e rimette nelle rovelle degli scienziati della storia contemporanea numerosi interrogativi, nonché numerose inchieste, su chi fosse davvero Pitagora, o ancor più addietro, se ci sia davvero stato un chi storico che un giorno avrebbe risposto alla domanda con un “sono io!”. Si vellica il ventre della delicata questione, meglio conosciuta come questione pitagorica. Essa allora si interroga non già sull’identità, bensì sulla storicità di Pitagora, e vede accanirsi disputanti afferenti ad opposte scuole di pensiero; nella fattispecie è da ricordare tutto quel filone della filologia tedesca del XIX secolo, incline ad interpretare la figura di Pitagora come una prosopopea di dottrine, incarnate in un nome proprio di persona, posto a capo della loro genesi, ed esprimente una ascendenza apollinea delle stesse.
In effetti, il nome Πυθαγόρας è un sostantivo composto che rimonta agli etimi Πύθιος e ἀγορεύω, corrispettivamente alludenti all’epiteto con cui si era solito celebrare Apollo, a motivo del suo trionfo contro il drago Pitone, e al verbo derivato traducibile con annunciare, arringare convertito muovendo dal sostantivo ἀγορά; sinteticamente tradotto: l’annunciatore del Pizio. Anche se alcuni non sono molto accosti a tale retrospezione etimologica, e di contro più indulgenti a ricondurre il primo morfema a πεἰθω (persuadere), il legame che la figura di Pitagora intrattiene con Apollo resta irrefragrabile; Diogene Laerzio ci informa che “in effetti si dice che Pitagora avesse un aspetto quanto mai grave e venerando e i suoi discepoli credevano fosse Apollo venuto dalla terra degli Iperborei”¹ e riportando l’opinione di Aristippo insiste vergando che “Aristippo di Cirene nell’opera Sulle indagini naturalistiche dice che fu chiamato Pitagora perché annunciava la verità non meno che il dio di Pito”². Sul primo episodio si indizia un riscontro anche nella biografia compilata da Porfirio, il quale afferma che “questi [Abaris l’Iperboreo] affermò che quelli [Pitagora] fosse l’ Apollo venerato presso gli Iperboorei, di cui Abari era sacerdote”³.
Studiosi insigni e autorevoli, tanto per farne sfilare alcuni, Eric Havelock o Eduard Zeller, hanno cavato da questo legame, in combinazioni ad altri dati fattuali, (quali l’ anacronismo delle compilazioni biografiche, la tanto menzionata reticenza di Aristotele, il cui celeberrimo compendio dossografico sul pensiero pitagorico, redatto nel libro A della Metafisica, esibisce una delimitazione tematica intestata più che a Pitagora, ad una corrente spersonificata, condensata nella dicitura incipitaria “i cosiddetti pitagorici”), argomenti utili per legittimare la scepsi intorno all’effettiva storicità di Pitagora, e nel caso di Havelock, addirittura appiccare la fiamma dell’incertezza sotto la conclamata storicità della scuola crotoniate.
Ad oggi, tuttavia, dall’archeologia non arrivano probazioni rimarchevoli ed utili per rivestire una qualsivoglia congettura di certezza irrefutabile, e dunque il gioco della questione pitagorica resta circoscritto al solo ambito filologico. Nel suo mentre aporetico, ci concede di contro di volgere lo sguardo a ciò che la tradizione ha abbondantemente sanzionato e licenziato ai manuali attraverso la visitazione sinottica di tutto il materiale tramandatosi negli anni, improntato su Pitagora o sui pitagorici, licenziato si diceva sub specie columinis per una ricostruzione biografica e dossologica, corredata con sufficienti riscontri per lo meno epigrafici, caratterizzati dalle convergenze più invalse nell’ampio novero di testi a noi pervenutaci (stilati, stando a quanto riportato dal Fumagalli, da “non meno di 70 autori”⁴). Una di queste columines, è proprio la terra che ospitò il culmine della grandezza di questo personaggio, dello spessore della sua filosofia, dell’ipotetica storia e storicità dell’uomo; l’ubertosa e feconda terra, il cui grembo accolse i greci di ventura, gli ecisti e le loro ἀποικίαι (colonie), laddove le pietre scartate e i perseguitati alla ricerca di un riscatto di vita trovarono ricetto, oltre il mare Ionio: la regione oggi conosciuta come Calabria. E giacché è dai figli e figli adottivi della Calabria, e nella fattispecie della genìa che in vita onorò l’arte del pensare e l’erudizione, che la detta terra concuoce a sé stessa i suoi concetti identitari quali parafernali ancillari alla ragione del suo futuribile, è opportuno rimarcare che se principio ci fu della scienza chiamata filosofia, in concomitanza e sinergicamente alla fioritura della fisica dei Milesi, allora quel principio invero conobbe finanche il suo conio lessicale presso quella che fu definita dallo stesso Platone Megálē Hellás, e più addentro nella scuola pitagorica di Crotone.

Insomma, glissando sulle plurime dispute storiografiche, se principio non fu della scienza chiamata filosofia nella sua geo-universalità, almeno fu, se dovessimo placare il nostro cieco indagare con le parole di Diogene Laerzio, sempre inquadrati nella dimensione geo-universale, il principio che sancì la chiamata di quella scienza propriamente con il nome di Filosofia; e se questo è ancora passibile di obiezione, si guardi bene colui che voglia confutare la susseguente asseverazione: dalle terre calabre nel VI sec. a.c. si levò un grido, si irradiò un effervescenza culturale che contribuì a temprare le fogge del pensiero occidentale e battezzò la regione con il movimento del pensiero filosofico; e il principio di tale movimento, checché ne dica la ricerca sulla sua effettiva storicità, tanto sia esso un uomo, un dio o pura flautis vucis, risponde al nome di Pitagora. Quando fu il giorno della Calabria, avrebbe detto Leonida Repaci, fu anche il giorno della Filosofia, potremo noi, sommessamente e con timbro cauto suggerire: il giorno in cui il dio Apollo, decise di rintronare la sua voce fra i pochi nembi ricettati dal cielo magno greco, la quale fra soffi equorei ed alte cime, nonostante “le calamità, le dominazioni, il terremoto, la malaria, il latifondo, le fiumare, le alluvioni, la peronospora, la siccità, la mosca olearia, l’analfabetismo, il punto d’onore, la gelosia, l’Onorata Società, la vendetta, l’omertà, la violenza, la falsa testimonianza, la miseria, l’emigrazione”⁵, preserva ancora oggi, i suoi irreversibili echi.
[1] Diogene Laerzio Libro VIII, 11
[2] Ivi
[3] PORFIRIO, Vite di Pitagora pp. 77
[4] PITAGORA, Versi aurei, a cura di Stefano Fumagalli Mimesis, pag. 9
[5] L. REPACI, Quando fu il giorno della Calabria