Puzzle e colla sniffata

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Prendiamo un puzzle. Comprato, regalato, rubato o scaricato dalle tasse, va bene uguale. Quando apriamo la scintillante scatola, ci troviamo dinanzi un agglomerato confusionale di piccoli pezzi, decine o centinaia, senza alcun ordine e soprattutto senza alcuna forma. Nella nostra testa però è già chiaro come andrà  a finire. Sicuramente potremmo anche stufarci, annoiarci o distrarci, ma sappiamo comunque quale sarà  il capolinea, sia se lo concluderemo o no. L’immagine svetta come cartellone pubblicitario, come uno spam granitico sul fronte della confezione. Fiori, quadri, animali e quanto di più creativo possa essere inventato dalla casa produttrice per rendere appetibile il prodotto. Un’immagine chiara, edulcorata che non sempre sarà la concreta realtà che ci troveremo di fronte una volta portato a termine il nostro lavoro non retribuito. Un manifesto di promesse non mantenute, un’esca ben disegnata che fa entrare in casa nostra la Monna Lisa o l’intera Torre Eiffel. Ed eccoci fantasticare, illudendoci di trasformare casa nostra in un domestico Louvre o in un prato fiorito di cartone riciclato.

Apriamo il cellofan, chi sgraziatamente, chi con le forbici a punta arrotondata, laceriamo quella sacca amniotica senza esitazione e riversiamo la miriade di spermatozoi sul fondo della confezione stessa o sul nostro tavolo di Ikea. Eccoli là, frammenti insensati, ammassati, un formicaio disordinato inanimato ma pulsante, in attesa di prendere la forma corretta. Mi sono sempre chiesto: quando le sferraglianti macchine sospiranti e annoiate creano quei minuscoli tasselli, li separano asetticamente dall’immagine già  creata o li sfornano da bravi panettieri sottopagati direttamente senza impasto? Probabilmente su Wikipedia troverei la risposta.

Ora, quella miriade di occhi ci osserva da un’angolazione frastagliata e incerta, alcuni pezzi sono girati sul dorso, mostrandoci sfacciatamente il loro lato b grigio e anonimo. Pezzi illusi e reazionari che credono di poter combattere la loro sorte certa con la sfrontatezza. Ma noi siamo Dio. Creeremo una chiara e sfavillante immagine da queste macerie, e lo faremo prima di cena o dopo pilates. Il prescelto si fa avanti, il messia a prezzo scontato che si para davanti ai nostri occhi in mezzo a tutto quel marasma. Il primo a vendersi, il primo ad arrendersi, di solito quello che le progettazioni al computer ha assegnato il frammento più chiaro. Un occhio per esempio, una vespa, un colore unico. Ma non basta.

Da qualche parte nel nostro cervello, in un profondo magazzino umido e stantio, inscatolato e ben rintracciabile, giace una sapienza dinastica e atavica che si anima e ci comanda con voce stentorea e dogmatica: si inizia dai bordi. Come automi, bot o robot ben programmati non potremmo mai opporci a tale ordine manifestato e trasceso che accende in noi un’egocentrica e salda arroganza. Ma quale bordo? Difficile scelta, potrebbe essere casuale oppure empatica. Ecco, questo mi sta più simpatico. I più arditi potrebbero anche girare uno di quei pezzi sfrontati con le braghe calate. Comunque vada, la creazione avrà inizio. Dai bordi. Gioia e compiacimento bussano alla porta del nostro cuore marchiato Amazon quando l’intero recinto sarà concluso. Un filo spinato ben ordinato che non può ferirci, una staccionata invalicabile che non puzza di maiale, una morsa eterna tanto simile alle domeniche trascorse a pregare.

Quanto ci disturba quel buco incompleto. Ci spaventa e ci inorridisce. Lo rinchiudiamo con cura dentro la scatola, ben attenti a non rovinare quell’opera d’arte incompleta. Trascorrono ore, giorni e mesi. Non permettiamo a nessuno di rimirare il nostro lavoro lasciato a metà, ai nostri amici non riveliamo il nostro segreto ben custodito, dopotutto incompleto non fa rima con porno o tantomeno con Prada, quindi perché mai dovremmo vantarcene? Ci sediamo, apriamo la scatola e ricominciamo sospirando, ma ben intenzionati come spie a non far parola di ciò che accadrà. Pezzo dopo pezzo, frammento dopo frammento, in un lungo ed estenuante lavoro non retribuito. Ognuno al suo posto, dove deve essere, dove è stato creato per essere, nessuna possibilità di scelta, siamo il Matro Titta del cartoncino che non verserà neanche una lacrima quando la testa di ognuno rimbalzerà sorridente nella cesta. Incastriamo con cura.

Che orrore indicibile quando scambiamo un pezzo, quando forziamo un pezzetto per incatenarlo ad un altro e scopriamo che non sarà il suo compagno di vita. Una breve storia d’amore rifiutato degna della miglior soap opera delle 20:30. Cyrano impara! Morto un Papa, se ne fa un altro. Così ricominciamo, assegnando arbitrariamente mogli, mariti e figli, petali, chiodi e aeroplani. Deve essere tutto in ordine. Deve essere tutto come sulla foto. Il jingle di Final Fantasy risuona nelle nostre orecchie arrossate dagli Air Pod da duecento euro, quel motivetto molto simile ad un paternalistico contentino che tintinna ogni volta che vinciamo uno scontro.

La nostra opera è conclusa, l’immagine svetta vicino al pacchetto di Heets e un bicchiere di Cocacola. La nostra Foresta Amazzonica da 300 pezzi è pronta, anche se piena di crepe. Sanguinanti fessure e cicatrici che il nostro sguardo bypassa e non vuole vedere, osserva e rimira la propria opera. Noi siamo Apollo, noi siamo Bolsonaro. Dopotutto, chi se ne frega della Foresta Amazzonica, noi l’abbiamo in casa e l’abbiamo fatta noi. Non del tutto compiaciuti, apriamo con cura il vasetto di colla che un tempo sniffavamo per inondare il retro e così rendere immortale quell’achievement da sfoggiare sopra la carta da parati. Ma la scatola è ancora là, sul tavolo, con la sua photoshoppata bellezza che ci vomita addosso la sua perfezione, così distante dal frammentato cielo di Van Gogh che stringiamo fra le mani. Che grande invenzione la raccolta differenziata. In un attimo indossiamo i guanti da assassino gelido e fiondiamo quell’impudente realtà aumentata consapevoli della nostra reiterata onnipotenza. Proprio come il Puzzle ancora imbustato, conosciamo bene anche il destino della sua confezione appariscente. Amici accorrete. Siate invidiosi del mio recinto fiorito, dei miei delitti in nome dell’ordine prestabilito, del mio tempo speso in nome dell’arte. Ho fatto tutto giusto, pezzo per pezzo ho ubbidito fiero agli ordini dei creatori di scatole. Neanche nei nostri incubi da sonnellino pomeridiano realizziamo che lo stesso articolo che ci dona tanta gioia e prestigio è stato venduto, assemblato, incollato e sfoggiato esattamente identico migliaia di volte. Non ci ottenebra l’animo poiché siamo giusti e ben costruiti, a norma e sempre in ordine, in serie.

Chissà quanti hanno speso un minuto del loro tempo prezioso ad indugiare sulla piccolissima scritta sul retro della scatola : “materiale infiammabile”…

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