Cosa accade quando un animo dall’estro profondamente pregno di materia surrealista si trova dinanzi ad un contesto plutocratico, labirintico e infernale come quello newyorkese? Come muta la concezione di arte poetica relativamente ai contesti a cui essa viene applicata? Com’è possibile estrinsecare la sofferenza intima che un mattatoio urbano veicola all’interno di una personalità oggettivamente alta come quella dell’autore di “Poeta en Nueva York”? Quanto è importante la dimensione spaziale per la poesia?
Tra il 1929 e il 1930, Federico García Lorca compie il viaggio che porterà alla stesura dell’opera che i critici ritengono la più completa, pubblicata postuma nel 1940. Infatti, “Poeta en Nueva York” è l’opera di Lorca che presenta una struttura dall’evidente complessità non tanto stilistica, quanto concettuale e semantica. Non è possibile, infatti, riconoscere un’area di significato univoca che funga da modello per l’esegesi dell’intera opera. Le 35 liriche distribuite in 10 sezioni trasmettono dolore, sgomento e repulsione nei confronti di creature vive, che si muovono, e le cui azioni hanno effetti nefasti: tali creature sono il denaro, il razzismo, l’abbandono, la solitudine e la depressione, che caratterizzano la New York ai tempi della Crisi del ’29.
Fu il socialista Ferdinando de los Ríos, grande amico di Lorca, ad offrire a quest’ultimo la possibilità di partire per gli USA, essendosi reso conto che il grande tormento interiore del poeta- dovuto alla propria sessualità e ai suoi molteplici fallimenti nelle relazioni sentimentali – lo stava soffocando al punto di sopraffarne non solo la vocazione poetica ma anche la sua salute mentale. E se Lorca si reca a New York per respirare un’aria meno pesante e infestata dal pregiudizio nei confronti di coloro che, come lui, facevano fatica ad identificare la propria individualità dinanzi a loro stessi, primariamente, e alla società di conseguenza, la situazione che gli appare davanti agli occhi non è eterea come si aspettava.
New York si mostra al poeta come un gigantesco labirinto, una realtà frammentata al punto che costringe chi vi si trova immerso a cercare affannosamente i pezzi da ricongiungere, un’entità criptica e impregnata di quel disprezzo verso il diverso che l’umanità non manca mai di dimostrare, per quanto evoluta creda di essere. Lorca sente di essere incompatibile al contesto americano, percepisce in esso la carenza di empatia degli esseri umani più ricchi rispetto a quelli più poveri e, allo stesso modo, la carenza di empatia nei confronti della natura. La società è, ai suoi occhi, vittima di un’industrializzazione che impedisce di respirare, di mettersi in contatto con l’ambiente naturale da cui abbiamo origine. Quello della terra madre è un tema molto caro al poeta, che avverte una nostalgia profonda della sua terra, l’Andalusia, che trasmette sensazioni antitetiche rispetto a quelle offerte dalla Grande Mela, e che veicola, dunque, un senso di purezza, genuinità e incontaminatezza di cui Lorca non troverà riscontro in nessun altro luogo.
Da ricercatore delle possibilità che uno spazio urbano diverso può offrire, Lorca diventa quindi vittima di un sistema indiscutibilmente votato allo spaesamento e al deterioramento individuale.
Essendo stata redatta dopo la morte dell’autore, l’opera subì diversi cambiamenti, che molto probabilmente la allontanano dall’intenzione primaria di Lorca, anche dal punto di vista dell’impatto iconico. Infatti, Lorca aveva scattato delle fotografie che intendeva inserire nel suo lavoro, e che ritraevano soggetti a cui avrebbe fatto riferimento.
I protagonisti di “Poeta en Nueva York” sono, paradossalmente, i non-protagonisti della società, come i poveri, gli afroamericani e gli emarginati in generale; e non è la prima volta che il poeta pone su un piedistallo coloro i quali non erano reputati degni di dignità sociale. Si ricordi, a tal proposito, un’opera anteriore, intitolata “Romancero Gitano”, dalla bellezza straordinaria, incentrata sul tema del “gitanismo”. Parlare di gitanismo brevemente, in relazione al contesto dell’Andalusia contemporanea a Lorca, dunque quella di fine anni ’20, sarebbe a mio avviso dissacrante, per cui preferirei limitarmi semplicemente a definire a grandi linee la figura del gitano, che è il soggetto sul quale l’opera è incentrata. L’immagine mentale che più o meno dovremmo figurarci nella mente quando parliamo di gitani è quella di una natura incontaminata, ascrivibile ad un contesto elementare, intaccato, che convive, però (o meglio, è costretto a farlo) con il mondo civilizzato che lo denigra e lo emargina. E comunque, come un’erba che non si può estirpare, come una magnifica eterotopia (un “luogo altro”), la figura del gitano continua imperterrita ad esistere (anzi, a coesistere), ritagliandosi a fatica il suo spazio e trascinando con sé quell’alone di magia, mistero e superstizione da cui è impossibile non rimanere affascinati. Quello del gitano diviene un mito, e l’emarginato diventa una creatura che resiste all’ostilità, di cui bisogna parlare, o – ancora meglio – su cui è necessario poetare. Ed è qui che l’analogia tra i gitani andalusi e gli emarginati (afroamericani, poveri, bambini, omosessuali) newyorkesi appare cristallina. La forma poetica è sicuramente differente, il surrealismo s’impossessa della penna di Lorca e non lascia spazio agli stilemi e al decoro di “Romancero Gitano”. È, però, impossibile non notare la persistenza del tema dell’emarginato, quale definirei vero e proprio filo conduttore tra le due opere.
Tornando a “Poeta en Nueva York”, desumiamo che sia fondamentale la riflessione circa la disumanizzazione dell’umano, l’alienazione e la volontà di un cambiamento volto al trionfo di una qualche forma di giustizia sociale, di bellezza, di amore.
Quel che Lorca critica non è il progresso in sé: è chiaro che esso sia utile e inevitabile per la società. È la degenerazione di esso che, a suo avviso, non può che portare ad un livello sempre maggiore di disumanizzazione basata sulla legge del più forte di darwiniano rimando. Sebbene non voglia lasciar trasparire inutili gemiti di autocommiserazione, Lorca sente di essere solo, di non poter contare su un contesto in cui il capitalismo fa da padrone. Una tale gestione del potere mira a provocare dolore e ad allontanare qualsiasi forma di speranza da coloro che si trovano già in condizioni precarie. La vena di sofferenza, di risentimento e di impotenza che traspare dai versi del poeta non è più particolarità, né tantomeno evento isolato: è abitudine, non vi può essere approccio differente.
Tra le immagini più suggestive dell’opera vi sono quelle evocate ne “L’Aurora”, una delle poesie più conturbanti e taglienti, nella quale leggiamo di una società abitata da esseri né vivi né morti, che agiscono in un’ombra artificiale, conseguenza del volontario e graduale offuscamento della luce naturale. Il fango è l’elemento che meglio descrive la condizione degli abitanti della città, e le colombe hanno perso il proprio candore: sono nere e fluttuano in un’acqua torbida. L’aurora, o quel che ne resta, si lamenta ed è angosciata. Nessuno la riceve: la parte del giorno che per antonomasia è portatrice di speranza, qui non porta altro che sconsolatezza. Non c’è mattino, non c’è inizio degno di essere chiamato tale. Il denaro è un essere animato e ha la forza malefica di perforare chi, come i bambini, non si può difendere. La speranza lascia il posto alla consapevolezza di star compiendo azioni che non porteranno nessun giovamento, bensì alla morte dell’agire con cognizione di causa, alle catene, all’insonnia, al naufragio di ogni bagliore di spirito vitale.
Qui di seguito sono riportati i versi (traduzione di Valerio Nardoni):
L’aurora di New York/ha quattro colonne di fango/e un uragano di colombe nere/che sguazzano nell’acqua putrida./L’aurora di New York geme/sulle immense scalinate/cercando fra gli spigoli/nardi di angoscia disegnata./L’aurora arriva e nessuno la riceve nella bocca/perché lì non c’è mattino né speranza possibile./A volte le monete in sciami furiosi/perforano e divorano bambini abbandonati./I primi ad uscire capiscono con le proprie ossa/che non ci sarà paradiso né amori sfogliati:/sanno di andare al fango di numeri e di leggi,/a giochi senza arte, a sudori senza frutto./La luce è sepolta da catene e frastuono/in un’impudica sfida di scienza senza radici./Nei quartieri c’è gente che barcolla insonne/come appena uscita da un naufragio di sangue.
Risulta quindi chiaro che, nella stesura di un lavoro che racchiude temi di un calibro così elevato, Lorca fosse inondato da quell’inquietudine fertile che aveva definito “duende”, termine spagnolo che è difficile tradurre in altre lingue, poiché racchiude un concetto che non può essere traslato in una cultura non ispanica utilizzando un morfema soltanto. Con “duende”, in breve, Lorca intende l’energia inquieta e al contempo fruttuosa che porta il poeta a produrre materia poetica: non si può, a suo avviso, non “abitare nell’inquietudine” e pretendere di poetare, pensare o insegnare. Si parla perciò di una condizione particolarmente coinvolgente, inebriante della mente – e sicuramente anche del corpo – che risulta da fattori che non possono dichiararsi indipendenti dallo spazio in cui l’individuo si trova.
Riporto qui il la terza definizione di “inquietud”, (parola spagnola per “inquietudine”), riportata dal Dizionario della RAE (Real Academia Española):
Inclinación del ánimo hacia algo, en especial en el campo de la estética. [Inclinazione dell’animo verso qualcosa, specialmente nel campo dell’estetica].
Proviamo a snocciolare la tesi di Lorca: pensare, poetare e insegnare dovrebbero essere conseguenza dell’inclinazione dell’animo nei confronti di un oggetto, di una situazione, di una realtà. Mi interesso a qualcosa e ne parlo perché sento di non poter fare altrimenti. Che senso avrebbe, per un(a) tale, parlare di qualcosa, scrivere su qualcosa o, peggio ancora, insegnare qualcosa, se la questione non gli/le sta a cuore? Quale coinvolgimento emotivo, morale avrebbe un discorso vuoto? Cos’è il pensiero, cos’è la poesia, e cos’è l’esposizione a fini didattici (o estetici, e qui l’arte si differenzierebbe dalla didattica), se non il risultato di ciò che io, pensatore, scrittore e insegnante, ho riconosciuto, filtrato, digerito e reso materia espressiva?
Il contesto socio-politico che fa da sfondo alla breve esistenza di Lorca è quello della dittatura franchista, situazione di inesorabile oppressione nei confronti dei corpi, certo, ma soprattutto delle menti creative. Nessun male è così incidente quanto l’affermarsi del divieto di pensare ed esprimersi liberamente, e questo Lorca lo provò sulla sua pelle.
All’alba del 19 agosto del 1936, a Granada, Lorca venne fucilato per mano dell’esercito franchista e il suo corpo venne gettato via senza essere sepolto. L’accusa era quella di essere “amante di Salvador Dalì: praticava omosessualità e altri abomini”. La verità è che Lorca era un intellettuale validissimo, dal talento, sensibilità e spirito critico troppo scomodi per un regime – quale il Franchismo – che basava il proprio modus operandi sulla mutilazione, nel senso più vasto del termine. È comunque cosa assodata che mutilare un corpo, privandolo della sua vita, per quanto barbaro e disumano possa essere, non servirà mai a spegnere il fuoco dello spirito intellettuale, un fuoco alimentato dalla passione comune a tutti coloro che non sono disposti a scendere a compromessi, coloro che non potranno essere fermati da alcuna dittatura di pensiero, poiché la cultura li ha dotati di un’immortalità che non può essere soppressa.