In occasione del primo centenario della creazione dell’eparchia di Lungro, sede vescovile dell’Italia continentale, le comunità arbëreshe di rito bizantino con il loro clero sono state ricevute in questi giorni dal Papa, proponendosi come esempio di un moderno ecumenismo e detentori unici dell’albanesità italiana. Che ciò fosse valido per il passato, figure storiche come papas Pietro Camodeca lo confermano, nulla da eccepire. Ma forse oggi tale cultura nell’evolversi nel suo aspetto sempre più secolare, non la si può ingabbiare soltanto nelle suggestive ritualità religiose.
La storia e la cultura albanofone sono sempre state condizionate dal problema dell’irredentismo e dalla vita seminomade di queste popolazioni balcaniche di varia origine, dall’ illirica, alla greco-pelasgica . In altre parole l’identificazione geografica dell’Albania di oggi non include affatto tutte le diverse culture e antiche lingue comunemente definite “albanesi”. Le numerose diaspore che si sono verificate nei secoli scorsi nella nostra penisola non sempre sono state di eroi o guerrieri. Questo vale anche per una delle migrazioni più consistenti, quella koronea, nella prima metà del sec. XVI. In realtà, non furono tutti eroi e guerrieri che lottarono contro i turchi quelli che, all’ indomani della caduta della Morea, nel Peloponneso, salparono da Korone per la penisola italica: numerose famiglie tribali approfittarono dell’occasione loro offerta in quel tempo da Andrea Doria che con fedeli mercenari albanesi, aveva lottato in Grecia contro il comune nemico mussulmano, sbarcando nelle coste italiche con la speranza di una vita migliore così come aveva loro promesso Carlo V, re di Napoli. Una volta giunti in Italia, col passar degli anni, le cose non andarono proprio così: buona parte di essi, difendendo lingua, religione e costumanze dalle realtà autoctone, non prestandosi affatto all’integrazione e sempre più malvisti, furono relegati in terre impervie e poco produttive.
Il rito religioso fu la loro ancora di salvezza identitaria anche se ultimamente non è di grande aiuto: le autorità religiose si arrogano competenze che, al di là delle suggestive ritualità in greco, si limitano, all’introduzione di iconostasi e di un ridondare di icone nelle chiese , abolendo ad un tempo le statue religiose presenti da sempre, che in alcune comunità destano qualche perplessità sulle loro giustificazione storica anche dal punto di vista religioso. E la specificità laica di queste singolarità linguistiche, purtroppo, scema sempre più, specie negli ultimi anni.
Uno dei rimedi efficaci sarebbe stata l’introduzione, dopo la seconda guerra mondiale, dell’insegnamento dell’ albanese ufficiale (lo shqip), a fianco dell’italiano, parallelamente a come era stato concesso per il tedesco agli altoatesini, il francese ai valdostani e lo sloveno alle minoranze friulane. Ciò non è stato possibile perché essendo delle “isole linguistiche”, così definite dal Bartoli, il governo di allora, ancora sotto lo strascico della cultura fascista, non ha ritenuto opportuno prendere in considerazione il valore e la conservazione di queste identità storiche così disparate. Inoltre, in l’Albania, unico paese dove tale lingua era già codificata, vigeva un sistema fortemente totalitario e non dava possibilità di libero scambio culturale.
Negli anni ’80 si faceva ancora a tempo perché ogni piccola comunità albanofona orgogliosa del proprio idioma, costumi e riti disponeva ancora di scuole d’obbligo: una giustificazione possibile potrebbe essere stata la carenza di insegnanti specifici e competenti che motivassero il ministero della pubblica istruzione. I pochi veri studiosi, appassionati com’erano di questa identità, tentarono, ma invano, di interessare le varie autorità di competenza, adducendo che con semplici corsi di semplice alfabetizzazione dello shqip ufficiale si poteva investire, nelle scuole d’obbligo di ogni ordine e grado, sulla trascrizione della parlata con la quale ancor oggi ci si esprime e sulla sua tutela.
Ma con i nuovi media non tutto è perso. Per il mantenimento della specificità linguistica che viene giornalmente utilizzata in modo informale nelle conversazioni necessita, però, un impegno serio, specifico: rendere, cioè, nobile l’ “aljbërisht” di ogni singola comunità tramite conoscenze e competenze provate. Purtroppo, con la legge 482/99, con malcelato interesse venale, una miriade di “luminari”, avvoltoi , associazioni o fondazioni ad uopo, sfruttando l’inettitudine e il protagonismo, tipico del dna storico di questa gente, si improvvisano quali paladini dell’, Arbëria italiana col supporto delle istituzioni locali. Lauree e masters in albanese con presunte competenze si materializzano in pavoneggianti manifestazioni folcloristi che più che altro carnascialesche perché prive di empatia culturale, giovandosi, ad ogni piè sospinto, di storiche figure come Giorgio Castriota Skanderbek o inneggiando all’aquila bifronte della bandiera albanese.
Molte altre ricchezze comunque persistono e il singolare idioma ne è la strumento di difesa. Una lingua, con la casistica quanto il greco e il sanscrito, con una struttura morfosintattica antichissima, presenta, però, serie difficoltà agli addetti ai lavori se non si hanno più che sufficienti competenze filologico-linguistiche e se non si fa riferimento alla lingua tetto per approntare manuali di alfabetizzazione di ogni singolo paese, con un minimo di struttura morfologica quale sussidio per l’acquisizione da parte dei loro utenti della competenza nella sua trascrizione, nella lettura e nella consequenziale difesa dell’orale. Tantomeno lo studio di queste parlate deve fermarsi alla mera filologia o linguistica, come morbosa analisi microscopica: non trattandosi di una lingua morta come il latino, basterebbe finalizzare tali competenze alla conoscenza della loro forma scritta, della loro singolarità, del loro prezioso valore identitario, rinverdendo la musicalità che si sente nelle loro gjitonie (vicinati), per far ”vivere” i parlanti, farli sentire attori nel proprio territorio, felici di farne parte e di autogestirne le risorse storico-culturali.
Dispiace dissentire da quelle che sono le posizioni ufficiali, ma oltre cinque secoli non sono passati invano: a cosa serve, ad esempio, scrivere “bashkia” sopra la porta del municipio se questo termine non esiste in nessuna parlata invece del bellissimo prestito modificato dall’italiano, come “Kanxheljari/a o komun/i” se non a nascondere dietro a un dito una contaminazione linguistica positiva? La cultura aljbëreshe (arbëreshe italiana) è ricchezza sinergica di antica cultura e lingua albanese, greca, e essenzialmente di quella autoctona dell’Italia per lo più meridionale. Tale sinergia ha sempre meno a che fare con l’Albania e le chiese greche di oggi o con l’area balcanica.
Bene sarebbe allora che non ci si ostini a fare importazioni linguistiche o di tradizioni senza radici storiche ma soltanto rivisitare e difendere quella ricchezza contaminata di queste antiche comunità con quella presa in prestito dalla civiltà autoctona, impreziosita, fatta propria, per sentirne il riverbero storico. Lingua, idioma, tradizioni assumono un ruolo imprescindibile per conoscere la valenza del passato che gli antenati aljbëreshë hanno tramandato. Tale presa di coscienza e tutela diventa prospettiva socio-esistenziale per queste aree interne e valida alternativa ad una cultura urbana sempre più scontata.
Solo con questa consapevolezza si potranno coinvolgere appieno le nuove generazioni, interessarle, anche se non dimorano costantemente in loco, usando i nuovi media , coinvolgendo anche lo “ljëtir”, l’italiofono, quale parte integrante e coprotagonista di questa diversità culturale italiana.
Pietro Abitante
Studioso delle tradizioni arbëreshe