De Amicitia

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Magister F.: Salute a te, mio discepolo. Dove trasporti il tuo spirito peregrino quest’oggi, e verso dove arde il tuo desiderio errante, visto che con tanta fretta ti muovi e apprensione, tanta da sfuggire agli occhi di Mercurio semmai dovesse gettarli per farti inciampare, sul tuo tragitto?

Discipulus: Caro Magister Magne! Perdonerai la mia celerità, ma devo proprio sollecitarmi ad andare, visto che ho convenuto un appuntamento con un amico, e a rigor di lancette, la mia presenza qui, ancora beata nell’agorà, è una bolla di scomunica al fluire del tempo. Capirai dunque il mio disbrigativo commiato, da quelle, suppongo tue molteplici incombenze, ma capirai altrettanto anche il mio invito e l’esortazione a scortarmi nell’incontro semmai quest’oggi tu le avessi già espletate, e la capienza del tuo intelletto fosse già sgombero dalle faccende quotidiane. Sai, anche il mio amico riserba un acume per l’arte del conversare e sovente si abbandona al fascino e alle malie di quella Circe che è la filosofia, per lavorare di lima sul suo scibile. Io, depositario di un acerba erudizione, ti sarei immensamente grato se secretando qualche tua perla sillogistica riusciresti ad intarsiare la corona di questo tanto ben voluto incontro.

Magister F.: Orsù, andiamo allora perché la mia agenda quest’oggi è leggera. O meglio, ogni agenda riscopre la sua levità al cospetto di un amico.

Discipulus: Ottimo allora, incamminiamoci verso di lui.

Magister F. Mentre incediamo, mi consentirai, caro mio discepolo, di dissipare il mio presentimento. Suppongo tu debba essere affezionato al con-venente, visto il fuoco che crepita nei tuoi occhi. Pare sia lo stesso in cui, con ogni probabilità tempraste il vostro legame. Un legame temprato nel fuoco, similmente e a guisa dell’acciaio, difficilmente scalfisce la sua panoplia. Mi compiaccio di ciò!

Discipulus: Il tuo occhio è come sempre una falange invece. Penetra la carne e perviene al tempio dello spirito. Ma ecco che lo si intravede alla strada che fa angolo. Appropinquiamoci ordunque, al fine di riconciliarci e di spegnere questo tanto sospirato desiderio.

Magister F.: Certo, che Achille in confronto sia la zilona di Zenone!

Amicus : Salute a te carissimo. Molto ho atteso la tua venuta, con l’impazienza di una gestante verso il nascituro.

Discipulus: Elevato come sempre. Nel digradare la piazza mi sono imbattuto e intrattenuto nel mio maestro, a cui ho chiesto gentilmente di accompagnarmi alla meta. Ecco svelata la differita!

Amicus: Che la gratitudine di questa inaspettata presenza, allora si possa convertire in denaro. Saremo più opulenti dell’opulenza di Crasso.

Magister F.: Onore ai Crassi dello spirito allora! Resto nel mio sconcerto nell’esperire un così tanto afflato amicale. Quasi mi sovviene la chiusa di quel dialogo di Platone, dove Socrate al termine di una feconda dialettica così, quasi avvilito sentenziava: “Certo che, o Liside e Menesseno, ci siamo resi veramente ridicoli, io, che sono vecchio, ma anche voi. Tutti, infatti, andandosene, diranno che noi, me compreso, crediamo di essere amici gli uni degli altri, ma non siamo stati in grado di dire cos’è l’amicizia”1

Amicus: Non conosco l’afferenza di questo epilogo? Qual’è il dialogo in questione?

Magister F.: Forse lo ricordi tu, o discepolo?

Discipulus: Se io non sono Cristo e la mia mente Giuda, dovrebbe essere proprio il Liside.

Magister F.: Esatto. Tu lo hai letto di recente? Se si da il caso, risciacqua la nostra memoria dalle impurità cumulate dal tempo e restituisci il nitore cristallino ai ricordi illanguiditi dalla sabbia della clessidra.

Discipulus: Ebbene cercherò di evocare a sommi capi delle reminiscenze. Il dialogo dipinge l’amore inespresso di Ippotale verso il giovane Liside, figlio del nobile Democrate, nonché l’incontro dialettico che Socrate, su esortazione dello stesso Ippotale intrattiene con Liside e Menesseno nei pressi di un ginnasio appena costruito, proprio nel giorno, se non vado errato dell’Ermaia, festa sacra al divino Ermes. Ecco tutto in estrema sintesi!

Magister F: “Ecco tutto in estrema sintesi”? Mi pare, o mio precipitoso allievo, giacché tu hai parlato di dipingere, che tu abbia in realtà, più che dipinto, come dire, fabbricato la cornice, e abbia immolato i colori del quadro sull’altare della cronaca.

Amicus: Concordo. Più che Platone sembrava Erodoto!

Discipulus: Scuserete allora la mia approssimazione. Cercherò nell’esaudire l’esortazione, di farmi perdonare. Fra Socrate e Liside, dopo che quest’ultimo si unisce alla parata dialettica, si sviluppa un confronto che conclude il suo percorso inferenziale su questa conquista: Chi è amato è colui che è sapiente, in quanto utile. Infatti per Socrate non è cosa ardua smarrire il fanciullo con la sua arguzia, e dopo aver fissato delle premesse con il beneplacito del suo interlocutore si appresta a levigarle. Gli domanda “ Liside, non è forse vero che i tuoi genitori ti amano?” La risposta del fanciullo è ovviamente approvativa. “E vorrebbero che tu fossi il più felice possibile?” insiste Socrate, premurandosi di evidenziare ovvietà, laddove la reazione del ragazzo non poteva che essere affermativa. Ma,una volta fissato che la felicità è far ciò che piace, da qui in poi nel commercio di battute si realizza che, fermo restando l’obbiettivo della felicità del figlio, i genitori non sempre acconsentivano ai suoi capricci. Come interpretare dunque questa contraddizione? Socrate infatti domanda: “Quale potrebbe essere o Liside, il motivo per cui, in questo caso non ti ostacolano e in quelli, a cui facevamo cenno poco fa sì?”. Liside identifica la competenza come la causa principale di accondiscendenza, poiché solo la competenza e l’utilità in un campo solleva la fiducia del committente. Socrate, guadagnata questa posizione, allora interroga ancora: Saremo cari a qualcuno e da lui amati se in nulla li potremo essere utili”? E giocoforza conclude, che chi è amato è il sapiente in quanto utile.

Questo torsione retorica viene archiviata nel discorso con Menesseno, dove la faccenda questionata si irradia da un’ altra domanda: Chi è l’amico? Colui che ama o colui che è amato? Quest’altro dialogo sfocia in un cul-de-sac, in quanto si stabilisce che affinché sbocci l’amicizia, non è necessario che sussista amore reciproco, ma non è nemmeno sufficiente che ci sia un amato senza un amante, né un amante senza un’ amato. Sicché, dopo aver spremuto ed escusso l’abile Menesseno, Socrate per scavallare lo stallo è costretto a riformulare la questione e a passarla in disamina con l’aiuto di Liside. Chi può essere amico? Sarà l’amicizia forse prerogativa del simile con il simile? Anche a questa ipotesi viene caducata, in quanto il malvagio non potrà essere mai amico del malvagio, mentre il buono, di contro, essendo depositario di perfezione, bastevole a sé stesso, non avrà la necessità di coltivare un amicizia. Che fare allora? La soluzione risiede forse negli opposti? Neanche questa rotta conduce a un porto sicuro. Infatti se così fosse, il nemico sarebbe amico dell’amico e l’amico amico del nemico. Un ossimoro insolubile. Mi pare poi, che si intraveda un compromesso introducendo una terza dimensione assiologica: il dominio neutro. Ciò che è neutro, ne buono ne cattivo, può essere amico del buono, a causa di un male che gli molesta le calcagna e in vista di un bene che gli carezza il futuro. Ed è in questo punto che Socrate, mediante un ulteriore ripiego, importa il concetto di “Primo Amico”: infatti egli fa notare che se si ratificasse quanto detto, dovremmo giocoforza ammettere che si è amici in vista di un fine buono, dunque amico, e a causa di un motivo maligno, dunque nemico, e che dunque il fine dovrà essere amico dell’amico, in quanto bene più alto e così via replicando la riduzione mezzo/fine e che la causa dovrà essere nemico dell’amico, e così via replicando la riduzione causa/effetto. L’asserzione viene riscritta come segue: L’amico è amico dell’amico, in vista di un amico e a causa di un nemico. Procedendo in questo solco, e ovvio che la recessione non potrà divorarsi all’infinito e richiederà a rigor di logica un Primo Amico in cui acquietarsi.

Ma tutto lo sforzo, viene vanificato, nel momento che lo spirito della disputa accende un faro su un ulteriore assunto forzoso. Se fosse verace quanto detto, dovremmo accogliere infatti, che non ci sarebbe amicizia se non a causa del male, il quale venuto meno, sottrarrebbe la ragion d’essere alla amicizia stessa. Lo sforzo dialettico lascia dunque aperta l’aporia.

Penso di esser stato sufficientemente esaustivo? Che possa deflagrare ipso facto se il mio quadro non è degno ora, al cospetto di questa epitome, della pinacoteca del vostra curiosità.

Amicus: Credo sia degno, mio caro amico!

Magister F.: Ben fatto dunque! Se il quadro trasuda di colori sgargianti, bisogna pur ammettere che è stato plagiato! Sarei circospetto ancora a proclamarti un pittore; direi al massimo un fotografo. Se vuoi che ti cinga il capo con un titolo così onorifico, mio caro discepolo, devi pestare oltre alle tue già conclamate benemerenze, lo scaglione più eminente. Pennella il tuo quadro!

Discipulus: Come posso io, primizia di primavera, competere su un terreno tanto lubrico da annichilire anche l’onnipossente Socrate? Sarebbe un accesso di tracotanza.

Magister: Sulle opere di ingegneria, qual’è l’eloquio maggiormente depositario di autorità?

Discipulus: L’ingegnere, lapalissiano!

Magister: Sulle faccende d’economia?

Discipulus: L’economo, perché insisti su questo vettore?

Magister: E dimmi, perché vengono lustrati con l’autorità?

Discipulus: A risentire Platone, perché hanno maturato esperienza e competenza, e un viatico d’erudizione.

Magister F.: E tu non sei forse amico del nostro ragazzo qui presente? Per definirti tale, bisogna che tu abbia maturato esperienza e competenza, e viatico d’erudizione in materia di amicizia; Ordunque dimmi, chi più di voi due, freschi rampolli di primavera, hanno l’eloquio autorevole, il timbro legittimo per una disquisizione nel merito? Come vedi giovane allievo, e come tu stesso pare abbia suggerito, è cosa inopportuna nutrire soggezione nei confronti dell’autorità di Platone, quando è lo stesso Platone che giustifica la tua autorità.

Discipulus: Mi hai persuaso! Proverò a ricamare una tela. E a ragion veduta, visto che tu hai valorizzato l’estratto di Platone per persuadermi a riflettere l’amicizia, anche io valorizzerò il medesimo estratto per persuadere te con la mia riflessione sull’amicizia. Amicizia è il beneficiare della competenza dell’amico.

Magister F.: Dovrò allora essere, mio caro discepolo, la tua Penelope insonne! Io ho asserito che affinchè si dell’amicizia è necessaria una competenza! Ciò però non è bastevole a suffragare il tuo chiasmo, il quale pretenziosamente afferma che è necessaria una competenza affinché si parli di amicizia. Così facendo tu fondi il dominio ontologico su quello gnoseologico, il che sarebbe tanto bislacco quanto bislacco sarebbe dire che la “conoscenza dell’ircocervo” coincide con l’”essere dell’ircocervo”.

Amicus: Inoltre, non mi si biasimi l’ingerenza, questa definizione canta lo spartito dell’utilitarismo!

L’amicizia annoderebbe il suo cordone ombelicale all’interesse. Non potrebbe dunque albeggiare amicizia alcuna presso gli inetti e i talenti sterili? Preferisco, a questa prospettiva, la visione del grande Cicerone, il cui magistero insegnava: “L’amicizia non è una conseguenza dell’interesse, ma l’interesse dell’amicizia”.

Magister F.: Forse hai ragione! Ma anche qui il cordone ombelicale non viene reciso. Si recita un dramma a ruoli invertiti, dove la madre si riqualifica figlio, e il figlio si riqualifica madre. É sì vero, che la causa scopre l’effetto, ma è altrettanto vero che scoperto l’effetto si deprava la causa. Mi spiego meglio. Se è l’amicizia la causa dell’interesse e non l’interesse la causa dell’amicizia, come potrà una simile gioco sfuggire dalle fauci dell’utilitarismo se alla fine o mi interessa l’amicizia per l’interesse o mi interessa l’”interesse-per-l’amicizia”. In entrambi i casi l’amico sarà un fattore transitivo per scivolare verso l’ interesse. Infatti il “per l’amicizia” non è il complemento di vantaggio ma parte di una espressione polirematica. Il complemento di vantaggio riposa silente nel clitico “mi”, dissimulato nel complemento di termine, che è proprio la stazione dove termina il vantaggio. Non basta una proprietà commutativa a rimescolare le carte. Anche nella misura in cui ad innalzare il registro subentra il concetto di Primo Amico, che nell’orizzonte dell’esegesi cristiana può essere corredato con attributi trascendentali, la musica di spartito striderà sempre sulla nota dell’utile, per tutto il periodo in cui ci sarà quel clitico a presiedere il periodo.

Amicus: Mi consenta a tal punto la provocazione: allora l’amicizia non può esistere?

Magister F.: E infatti non esiste!

Discipulus: Ma come, se fino a poco prima mi istigavi con le labbra di Platone, a parlare dell’amicizia in quanto latore di un corpulento eloquio, ispirato ed istruito dal mio amico?

Magister F.: Di fatti è così!

Discipulus: Il triangolo non ha quattro lati!

Amicus: Già scusi, pare che anche lei sia rimasto invischiato nei lacci del paradosso.

Magister F.: Permettete allora che mi chiarifichi. I grandi maestri ci hanno tramandato che essere ed esistenza sono concetti irriducibili. Lo stesso Platone riconduceva il primo all’intellegibile e il secondo al sensibile. Ex-sistere significa propriamente stare- fuori, e se l’essere in Platone stava dentro l’intellegibile, il sensibile nel suo esistere era semplicemente lo stare-fuori dell’essere, e dunque lo stare fuori dall’essere. Dunque se l’amicizia sta fuori di sé, non significa forse condannarla al non essere? É necessario che l’amicizia stia in-sé, dunque più che ex-sistere è necessario in-sistere. Ma affinché l’amicizia insista, si rende altresì necessario che l’amico esista. Infatti non è perché l’amicizia insiste che esiste l’amico, ma è perché esiste l’amico che insiste l’amicizia: Che significa dunque che l’amico esiste? Vorrei ragazzi, portare all’attenzione l’emblematico caso dei famosi pitagorici Damone E Fizia. Quando Fizia viene condannato a morte dal tiranno di Siracusa, egli richiede a quest’ultimo di poter sistemare gli affari, prima della sua esecuzione; Come sappiamo, la richiesta viene accolta solo per l’esistenza di Damone, che si propone come moneta di scambio per riscattare la provvisoria libertà di Fizia, ad un ridente e scettico Dionisio, divertito dalla stoltezza dell’uomo. Qui l’amico ex-siste, esce fuori da sé e nell altro cancella il suo clitico; non è un in-sè e per-sè, ma nell’-altro e per-l’-altro. L’amicizia in-siste, si da in-sè e per-sè, come immagine speculare del nell’-altro per-l’-altro. Stessa itinerario al momento dell’inatteso ritorno di Fizia, che dissipate le ultime indiscrezioni, rientrava per barattarsi all’amico, ed espiare la condanna capitale.

Da qui cari, cerco di sbrogliare il ginepraio. Ho legittimato la tua riflessione, caro discepolo, solo perché sono convinto che è l’esistenza dell’amico che prodiga l’essere all’amicizia, e non viceversa. Similmente è la presenza dell’amico, che fa di te una persona erudita, e non la tua erudizione fa di te un amico. Con questo mi congedo, giacché è tardi e il crepuscolo danza sui chiaroscuri. Il quadro che volevamo dipingere pare che abbia preso la stessa proporzione del cielo!

1PLATONE, Tutti gli scritti, Liside, a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1991, p.758

L.P.G.

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