“Più che per la repressione, soffro per il silenzio del mondo”
(Martin Luther King)
Se fosse già il titolo di un capitolo del libro di storia, si potrebbe definire l’attuale periodo socio-culturale come: “L’Indifferenza”. Nei discorsi quotidiani, per le strade di paesi e città si percepisce un’atmosfera di forte individualismo che spesso sfocia in un vero e proprio egoismo. L’importante è garantire la sopravvivenza nelle proprie “quattro mura”, l’importante è guardarsi bene la propria famiglia, arrivare a fine mese con pochi pensieri. Ciò che succede intorno sembra non toccarci più, o almeno non abbastanza. Ci si è costruiti una corazza, un muro immaginario, un mondo ovattato, in modo che le sofferenze altrui non possano raggiungere le nostre coscienze. L’empatia non ha più spazio, la generosità è stata soffocata, l’altruismo è sparito, l’umanità del uomo è sempre più lontana.
Quotidianamente appaiono notizie ed immagini di disastri di guerre, bombe, bambini uccisi o annegati, il tutto fa scalpore per qualche ora poiché condiviso sui social con una bella frase fatta. Nonostante il dramma, le reazioni alle dolorose immagini che circolano nel nostro caro web, sono a volte fatte di insulti che si possono decisamente definire razzisti. Qualcuno, in risposta, alza gli occhi e si indigna, ma il giorno dopo tutto continua come se niente fosse.
Paradossalmente, l’indifferenza, oggigiorno, è quasi comprensibile, in quanto viviamo in un mondo pieno di incoerenza e contraddizioni dove l’indifferenza sembra essere la strategia più facile per difendersi. Passare dritto davanti ad un bambino che elemosina per strada è infatti molto più facile, e l’atto deresponsabilizzazione che si assume in quel momento è la via più semplice e meno problematica. D’altronde chi potrebbe mai caricarsi addosso tutto il male di questo mondo? Sarebbe troppo doloroso, ed anche rischioso lasciarsi avvolgere pienamente dalle emozioni, abbandonarsi ad esse, e di conseguenza spesso e volentieri preferiamo pensare che la cosa non ci riguarda. Non è colpa nostra. Troppo stressati dalla propria quotidianità forse, dallo studio, dal lavoro, dalla famiglia, dagli obblighi finanziari, sociali, dalle abitudini, dalla cosiddetta “lotta” costante, decidiamo di non vedere, non ascoltare, non parlare.
Imprigionati nelle proprie consuetudini, persi in una vita che spesso non corrisponde ai propri valori, frustrati, insoddisfatti e alienati da bisogni costruiti ed estrinseci, il mondo va a rotoli, la crisi economica ci divora, disoccupazione sale, i pochi posti di lavoro che ci sono non sono degni, la politica è deludente e corrotta, il pianeta sempre più danneggiato e noi sempre più soli e distanti. La prospettiva futura, vista da questa angolatura, è prevalentemente negativa, regna una nube nera e pessimistica, ed a tale quadro oscuro, a fine giornata si aggiunge la stanchezza, lo stress e cosi si torna a casa stremati, con la voglia di “staccare”, distrarsi con il cellulare o seguire qualche programma televisivo, possibilmente demenziale.
Tutta questa insoddisfazione interiore viene, a volte (o spesso), proiettata attraverso uno strano odio e di conseguenza riversata verso il prossimo; a qualcuno bisogna pur dare la colpa, e nella maggior parte dei casi, oggi tocca al famoso “immigrato”. Frasi fatte governano le chiacchiere di strada: “ci hanno invasi”, “ci rubano il lavoro”, “non mi riguarda”, “e a me chi mi aiuta”, “ci dovrebbe pensare lo stato”, “non ho manco i soldi per campare io”.
Il risultato è che viviamo un’era in cui regna nuovamente il razzismo. Il concetto di uguaglianza degli esseri umani e di universalità dei diritti viene meno, la coscienza collettiva si sta sgretolando. Prendono posto l’intolleranza, l’emarginazione, l’odio, la violenza verbale e fisica verso chi è diverso (di colore o cultura) e tali comportamenti vengono direttamente e indirettamente approvati e incoraggiati da figure di rilievo (definibili anche come “seminatori di odio”). Come se fosse normale. L’assurdità di alcune affermazioni, come ad esempio incitazioni all’odio o titoli di giornali palesemente razzisti, non viene minimamente messa in dubbio. Si aggiunge una politica che si focalizza sul problema SICUREZZA, deviando i cittadini dai problemi reali quali la crisi climatica, la corruzione, la mafia, le speculazioni finanziare, e soprattuto la crisi dei valori.
In tutta questa decadenza, nei casi estremi, il risultato è che di fronte al naufragio di 150 persone in mare, ci sono addirittura esseri “disumani” in grado di commentare: “meglio, più cibo per i pesci in mare”.
E’ arrivato il momento di fermarsi e meditare, farsi un esame di coscienza e chiedersi come la società sia arrivata a questo punto, al punto di perdere letteralmente il senno. Stiamo parlando di “Persone” che hanno un cuore che batte, con emozioni, pensieri, affetti e relazioni.
Non è più una questione di soldi, di lavoro, di politica o di distribuire o delegare la responsabilità di ciò che accade. Non è importante se siamo a favore o contrari all’immigrazione, se siamo di destra o di sinistra. È una questione di umanità. Qui ci troviamo di fronte ad una crisi culturale ed umanitaria infinitamente grande e la colpa è di tutti. “Per me possono anche annegare” non è una frase che un essere umano con cognizione di causa possa pronunciare. Soltanto il fatto che sia possibile fare una proposta di legge che possa multare i cittadini per eccesso di umanità, in caso di soccorso in mare, dovrebbe farci riflettere e sopratutto indignare. Di fronte a noi, accanto a noi, sotto casa nostra muoiono quotidianamente delle persone che potrebbero essere i nostri figli se solo fossimo nati dall’altra parte del mondo. Persone che attraversano mari ed oceani pur di cercare un mondo migliore, e di sicuro non si fanno il giro in barca, la nuotata o la vacanza di fine anno, ma in realtà non hanno altra scelta. Chi decide di metter i propri figli, la propria famiglia in mare, attraversando deserti, subendo violenze psicologiche e fisiche, non ha di sicuro altra scelta. Chi decide di abbandonare il proprio paese di origine nel viaggio verso la speranza, in cerca di una vita dignitosa, non ha altra scelta. Ognuno di noi vorrebbe rimanere nel paese che gli appartiene, vivere una vita tranquilla in cui non deve preoccuparsi che una mina esploda quando esce di casa per fare la spesa.
Stiamo parlando di bisogni primari e di sopravvivenza. I bisogni primari sono i bisogni fisiologici e quelli di sicurezza, quali ad esempio i bisogni di respiro, salute, alimentazione, sicurezza, occupazione. In un mondo in cui i bisogni primari e secondari sono garantiti soltanto ad una parte delle persone, non può che regnare il disordine, e se poi l’unica “colpa” di quelli sfortunati è quella di essere nati nel paese o continente sbagliato in cui regna la guerra o la povertà, l’ingiustizia diventa ancora più grave.
Se i più fortunati si limitano a guardare i meno fortunati dalle loro poltrone di casa, con aria di sufficienza e indifferenza, allora possiamo iniziare a mettere in dubbio il concetto di umanità intrinseco all’uomo. Come affermava Vittorio Arrigoni “apparteniamo tutti, indipendentemente dalle latitudini e dalle longitudini, alla stessa famiglia, che è la famiglia umana”. Nessun essere è migliore di un altro, soltanto perché è geograficamente “fortunato” o perché nato da una famiglia ricca. Dalla storia dovremmo aver imparato che le discriminazione, le etichette, le divisioni, le frontiere, i muri non portano a nulla di buono.
“Sono molte le atrocità nel mondo e moltissimi i pericoli. Ma di una cosa sono certo: il male peggiore è l’indifferenza.”
Elie Wiesel (scrittore ebreo sopravvissuto all’olocausto)
Eppure la storia continua a ripetersi, come un circolo vizioso, come un gioco fatto da una ruota che gira costantemente nella stessa direzione. Il metodo poi è sempre lo stesso: si crea un in-group ed un out-group e il cittadino medio (che potremmo in tal caso definire “ignorante”) casca nella trappola del “prima noi”, alza il muro metaforico o reale, si mette sulla difensiva e attacca l’out-group. Tutta questa aggressività, tutto questo incitare le folle ad odiare l’altro (facente parte dell’out-group) porta molti esseri a perdere quel pizzico di umanità rimasta.
È necessario sperare che quel pizzico di umanità sia ancora presente in qualche parte di noi e l’unico modo per riattivare i neuroni della collettività, è favorire l’incontro tra gli esseri dell’in- e out-group. Presentarsi, conoscersi, ascoltare le storie per rendersi conto che non c’è pericolo, non c’è rischio, ma solo gioia. Dietro quel muro che ci si è costruiti si nasconde spesso un mondo meraviglioso, fatto di incontri, scambi tra persone, culture che si arricchiscono. È d’obbligo informarsi sui fatti, sui numeri e le statistiche, leggere, studiare modi alternativi, venirsi incontro per favorire la convivenza. Non bisogna assolutamente rimanere chiusi nei propri salotti, per osservare il mondo da analfabeti funzionali, posizionarsi dietro uno schermo ad assorbire informazioni contorte e scrivere commenti rabbiosi sui social. Dovremmo uscire e incontrare l’oggetto o il soggetto di cui si sta parlando. Se ci si siede a tavola con una persona che racconta la propria storia e guardandola profondamente negli occhi si ascolta il tutto con consapevolezza e attenzione , sarà impossibile rimanere indifferenti. Non è una storia inventata quella del barcone, non è una storia inventata quella in cui Hassan muore di fame, vive per strada e rischia la morte ogni giorno insieme a sua moglie e i suoi quattro figli. Non è un film d’avventura, quello in cui Ismael decide di imbarcarsi in chilometri di camminate nel deserto, per poi salire su una barca sovraffollata con il terrore dell’acqua, sapendo che probabilmente non sopravvivrà quel viaggio.
Basta dare un nome ed entrare leggermente nello specifico per far diventare reali le persone di cui tanto si parla negativamente, da cui ci si distanzia con tanta facilità. Tutte queste storie devono diventare nuovamente “personali”, poiché riguardano tutti. La distanza tra noi “fortunati” e gli altri deve essere annullata, anche perché un tempo non eravamo mica tanto fortunati, e cosi come non lo eravamo, potremmo non esserlo. Se entrassimo tutti in quest’ottica non sarebbe più accettabile girarsi dall’altro lato e far finta di niente. Nessuno risponderebbe ad Hassan “per me puoi anche annegare” oppure “tornatene a casa tua, dove le bombe ti uccideranno”, nessuno avrebbe il coraggio di dirgli tali frasi guardandolo veramente negli occhi. Tutti proveremmo un senso di colpa, torneremmo a provare empatia, altruismo e amore nei confronti di coloro che oggi affrontano queste tragedie. Nessuno resterebbe fermo, tutti farebbero, anche nel loro piccolo, qualcosa per rendere questo mondo migliore esoprattuto per ritornare ad essere umani. O almeno si spera..

“Il mondo è un posto pericoloso, non a causa di quelli che compiono azioni malvagie, ma per quelli che osservano senza fare nulla”
(Albert Einstein)Mara Eliana Tunno