L’indice dei popoli che taglia di cominciamento la ciclicità dei Titani tradisce il bisogno innato della misurazione, quell’indole alla quantità, che solo etnocentricamente chiamiamo matematica, e che per amor di inclusivismo etnologico dovremmo sbiadire in una universale e ad una generica e poco esplicativa categoria, per l’appunto quella della quantità. Esso è un’arma di difesa, con la quale l’uomo ramingo si scaglia contro il tiranneggiare del tempo, quel possente Crono, che fa banchetto della prole e tutto fagocita in qualità di sovrano incontrastato del divenire. È il divenire che diviene, lo spettro che atterrisce i mortali, i quali con pazienza di ingegno coprono di senso il flusso tragico del mero esistere, del mero galleggiare. La morte è la foce. La nascita è la fonte. Noi non vogliamo sboccare nel periglio del nulla. Noi lanciamo gli ormeggi nell’ interregno fra la fonte e la foce; costruiamo i remi per affrontare la risalita. I greci la chiamano Epanastasi. La rinascita che anche è rivoluzione; essa si cuce nei costumi dei popoli e prova a piegare il tempo alla geometria del suo cercare: la retta che si chiude nel cerchio; Il fiume cavalcato a ritroso dalla zattera. Ogni cominciamento è sempre già cominciato in quanto cimitero di una fiamma di Crono e grembo di un scintilla ulteriore. Ogni cominciamento è già da sempre un ricominciamento. Qui è la morte che si fa pretesto di rinascita; non v’è Epanastasi senza Tanato. E l’uomo, l’essere che vuole inscatolare il divenire, marcia contro esso con in mano un compasso, e ne misura a colpi di ritorno dell’uguale il senso di questo altrimenti orbato fluire. La ciclicità del tempo si cadenza nei coloriti delle stagioni, che nell’alternanze equinoziali e solstiziali cangiano lo spazio dell’uomo con tinte di nascita e di morte. Esse riconoscono, come punto di rampollamento, la stagione che su tutte sta all’eminenza del senso, e lo spalma sulle stagioni subordinate: essa ipoteca le altre stagioni in quanto nascita, ma giacché dalle altre stagioni e anche da sempre ipotecata essa sarà in quanto rinascita. Dal latino all’italiano, noi la celebriamo come Primavera.
Quando la primula e la peonia si aprono alla terra e i peschi si intarsiano di fiori, qualcosa accade nello spirito dei popoli. Cosa noi non lo vediamo, giacché i nostri occhi sono incavati ai panneggi dei costumi che lo ammantano. Cosa noi lo percepiamo, tuttavia, dalle trasparenze che tali costumi lasciano indovinare agli occhi ostinati.
Essi reagiscono nella sartoria della loro cultura, all’avvento dell’Epanastasi, salutata in individuo nelle impermeabilità delle viscere, e in more nella permeabilità del linguaggio rituale.
Qui di seguito allora, nessuna pretesa di profondità; solo una velata carezza alla superficie delle acque, nella celerità di un volo aligero, che vuole gettare uno sguardo fugace ai livelli epidermici col solo scopo di poter poeticamente fantasticare, una volta distoltosi, sui livelli profondi che ombreggiavano il suo vedere.
Sfili dunque una lista chiusa di motivi che hanno esornato l’Epanastasi nei suoi costumi, o meglio nei costumi che di volta in volta, le culture degli uomini gli hanno addossato.
La Primavera nei Popoli Italici
La ricorrenza presso gli Italici, conosciuta come Ver Sacrum, propiziava la deduzione di nuove colonie, mediante rituali di immolazione e riti totemici, in cui riconosciuto il totem referente, lo si tampinava nella speranza che dalla sua rotta si cavassero le coordinate su cui fondare una colonia. Una pratica antica, celebrata saltuariamente anche dai Latini, precipuamente invalsa presso i Piceni e i Sanniti, i quali si ipotizza avessero come animale totem rispettivamente il picchio e toro, gli Irpini, che riconoscevano nell’Hirpus (il lupo) la simbolicità sacra, la quale come risulta evidente, agiva anche d’eponimo identificativo.
La Primavera nella Roma antica
La primavera, dopo il 204 a.C., a Roma fu legata al mito della dea Cibele, la Magna Mater, di origine anatolica, che ivi fu introdotta contestualmente alle guerre puniche. Il mito, nelle sue diverse varianti, racconta di Cibele e di Attis, suo figlio e amante, che scoperto nella fornicazione con una Ninfa, per espiare la vergogna si uccide evirandosi all’ombra di un pino. Il sangue che sgorgò dai genitali fecondò la terra rendendola fertile. Ciò si traduce a Roma informando il rituale del Sanguem, consumato fra il 15 e il 28 marzo a preambolo dei Ludi Megalensi, che si celebravano dal 4 al 10 aprile. Il rituale era cadenzato nelle seguente fasi:
Canna Intrat: una processione chiamata “Entra la Canna”, perveniva al tempio di Cibele ad esporre canne, allo scopo di rievocare l’esposizione di Attis bambino in un canneto
Arbor Intrat: la processione chiamata “Entra l’albero”, celebrava la morte del Dio Attis, tagliando un pino e trasportandolo sulla soglia del tempio di Cibele.
Sanguem: la fase culminante della cerimonia funebre, dove il sacerdote e i fedeli si abbandovano ad atti di autolesionismo allo scopo di rievocare attraverso il sangue, il sacrificio del Dio. Il pino veniva lasciato nel sotterraneo e si vegliava l’intera notte in attesa del giorno successivo
Hilaria, Requetio, Lavatio: Si celebra la risurrezione del Dio nell’Hilaria, mediante cortei e sfilate giubilanti. Nel requetio si rispetta il giorno di riposo e nella lavatio si procede all’abluzione della statua dio Cibele da parte del sacerdote, che la cosparge di cenere nell’atto finale
Initium Caiani: in ultimo veniva praticata la cerimonia di iniziazione ai misteri di Attis, prima delle sei giornate dei Ludi.
La Primavera in Grecia Antica
Nella Grecia antica la primavera era legata al racconto di Kore-Persefone, strappata da Ade dalle braccia della Madre Demetra, il cui mito veniva celebrato in due occorrenze annuali, rispettivamente in prossimità dei due equinozi, nel mese dell’Antesterione e di Boedriomone, con culti denominati Piccoli Misteri e Grandi misteri. Oltre che dei Piccoli Misteri, Antesterione era anche il mese delle celebri Antesterie, feste tributate a Dioniso dove si celebrava la venuta del vino nuovo e della fioritura. Esse si articolavano in tre giorni, con rituali cosi organizzati:
Giorno del Pithoígia (apertura dei vasi): si assaggiava in un atmosfera festante il vino pigiato nel periodo autunnale.
Giorno delle Choes (brocche): la festa raggiungeva il parossismo e tutta la città si ricopriva di ebrezza. Si svolgevano gare di bevute e rituali bacchici di commemorazione.
Giorno dei Chýtroi (pentole): nel giorno delle pentole venova data cottura a vari tipi di grano tributati al dio Ermes per commemorare le vittime del Diluvio di Deucalione, in cui dominava il tema del miarà (contaminazione), che per esser scongiurata si dava luogo ad una sequela di rituali codificati a fini apotropaici, per esorcizzare gli spiriti.
La Primavera in Persia
In Iran e nei paesi influenzati dalla cultura persiana, ancora oggi si celebra la festa del Noruz (nuovo giorno), il capodanno persiano di ascendenza zoroastriana, la cui istituzione viene fatta risalire secondo la tradizione al leggendario re Yima, poi passata sotto la revisione di Zartust in persona, il quale la riassetta in onore di Aura Mazda. Durante la cerimonia, spalmata su 14 giorni di festività, si alternano riti e istanze cerimoniali, fra le quali si ricorda il Khane Tekane, le pulizie primaverili della casa, Chaharshanbe Suri, la festa del in cui si consacra il fuoco (simbolo principale nella religione zoroastriana) nell’ultimo mercoledì dell’anno, e infine l’Haft Sinn, ossia la disposizione su un altarino improvvisato, di sette oggetti il cui nome in farsi reca come iniziale la lettera S.
La Primavera in Giappone
In occasione dell’equinozio di primavera, nonché di quello autunnale, in Giappone ricorre l’Higan, una festività di matrice buddhista, che si articola nei tre giorni precedenti il giorno dell’equinozio e nei tre giorni successivi, per un totale di sette giorni profusi eminentemente ad omaggiare e praticare il culto degli antenati.
La Primavera presso i Cristiani
Tanto per gli ortodossi che per i cattolici, la primavera risalta nelle festività pasquali che revisionano filtrato dalla narrazione cristiana il tema della morte e della rinascita. Se nella celebrazione liturgica il kerigma cristiano, supportato dalla teologia, ricopre con tinte fortemente umanistiche il concetto di ritorno della vita, dilatato nell’arco della settimana santa, nelle pratiche folkloriche restano in controluce codici e linguaggi rivenienti da repertori pagani e ripropongono la risacca di simboli ancestrali. Il tema del sangue e della morte del Dio, centrale nella Passio Christi, rilancia a fosche vedute grammatiche ricomprese nel culto di Cibele e le vivifica di nuova semantica, attraverso la metafora che sublima il sangue materico al sangue simbolico riconosciuto nella transustanziazione del vino. In alcuni paesi del meridione d’Italia, riecheggiano ancora rituali dal sapore vetusto, che perpetuano un substrato culturale precristiano sulla quale sopraggiunse solo ad innesto la dottrina evangelica. I ‘vattienti’ di Nocera terinese in Calabria, i quali il giorno del sabato santo si percuotono con il cardo (sughero da cui spiccano 13 chiodi) lacerandosi le carni sono testimonianza vivente di strutture rituali che rimontano a tempi primigenei. dove viene posta in omissione la metafora sancita dal cristianesimo, che ascende dalla materia alla forma in un processo tutto intestino alla sfera del simbolico e del sacro.
A questo filo rosso molte sono le interpretazioni dell’Epanastasi che si potrebbero annodare, sgranando costume dopo costume al punto da compilare un’enciclopedia dalla mole elefantiaca. Non è, ovviamente, la sede adeguata. Riusciremo tuttavia, perseguendo tale rotta, a cogliere l’estensione della lettera, l’enfiamento esponenziale che risulterà dal dilatare la ricerca; lo spirito invece, quello sì, guizza beffardo solo al battito di ciglia; il punto cieco di ogni guardare.