La primavera di una disciplina: Genesi della Terapia Occupazionale

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La Terapia Occupazionale (TO) è una professione sanitaria della riabilitazione che promuove la salute e il benessere attraverso l’occupazione. E’ un processo riabilitativo che, adoperando come mezzo privilegiato il fare e le molteplici attività della vita quotidiana, attraverso un intervento individuale o di gruppo, coinvolge la globalità della persona con lo scopo di aiutarne l’adattamento fisico, psicologico o sociale, per migliorarne globalmente la qualità di vita pur nella disabilità.” (AITO)

Prima di arrivare a questa definizione della professione, nel corso dei secoli sono state elaborate delle concezioni che hanno contribuito fortemente all’affermazione di quelli che sono i principi cardine della terapia occupazionale. In virtù di ciò, non si può prescindere dall’analisi diacronica della nozione stessa di occupazione, la quale combinata con paradigmi culturali di diversa matrice ha prodotto delle semantiche differenti che hanno precorso la nascita della professione.

E’ a partire dalle prime forme di civiltà (cinese, persiana, azteca, inca, greca, egiziana) che si registra l’uso di danza, musica, giardinaggio, giochi, gare ed esercizi fisici come fonte di occupazione sia sociale che culturale mirata al raggiungimento dell’integrità psicosomatica. A proposito di quest’ultima non si possono non citare i due esponenti focali del mondo greco-latino, Ippocrate e Galeno, i quali in virtù di una dimensione olistica dell’uomo usavano prescrivere attività (ergon) di vario genere. A riprova di questa unione mente-corpo e della sua declinazione sociale, nella narrativa filosofica, Platone nel suo dialogo “La Repubblica” (Politèia) asserisce la correlazione fra predisposizione psichica e disposizione sociale all’interno della polis, tale per cui ciascun individuo era vocato ad un’attività che valorizzava la sua identità. Anche Aristotele nel suo trattato “Etica a Nicomaco” manifesta il pensiero secondo il quale il benessere dell’essere umano è il risultato dell’attività e di azioni che sono desiderate e soddisfacenti.

La promozione di attività ricreative a fini terapeutici si riscontra anche nell’operato di Asclepiade (I sec a.c) e di Cornelio Celso, il quale suggeriva per mantenere un buono stato di salute, pratiche che possono essere definite occupazionali: veleggiare, cavalcare, maneggiare le armi, giocare a palla, correre e molte altre.

In tempi più recenti,verso la metà del 1600 a Padova, Bernardino Ramazzini, considerato il precursore della medicina sociale,sottolineava l’importanza della prevenzione ai danni del lavoro: segnatamente poneva la sua attenzione sul peculiare valore dell’esercizio muscolare compiuto durante le attività manuali di tessitura, calzoleria e ceramica e raccomandava il ritmo, insistendo sull’alternanza lavoro-riposo. Successivamente, nel XVIII sec, in piena rivoluzione industriale nel cui quadro la medicina beneficiò di stimoli scientifici e tecnici subendo l’ascendenza dell’ideale illuministico, il medico pioniere della fisioterapia francese, Joseph Tissot, analizzò i movimenti effettuati in alcune attività, classificandoli in attivi, passivi e misti, e prescrisse lavori manuali e artigianali per il recupero di menomazioni dovute a malattie o traumi.

Al contempo, l’occupazione intesa come attività manuale investì anche l’ambito psichiatrico nel quale si contraddistinse lo psichiatra italiano, Vincenzo Chiarugi, che nel 1759 elaborò un criterio umanitario, non restrittivo e basato sul rispetto della persona, utilizzando attività facilitanti l’integrazione degli individui affetti da disturbi mentali. Tale atteggiamento medico innovativo nei confronti di questi pazienti è da considerarsi l’antesignano di quello che verrà poi definito dallo psichiatra francese Philippe Pinel, all’inizio del XIX sec, trattamento morale, secondo il quale il malato di mente ha la possibilità di identificare nel fare e, dunque, nell’occupazione la sua attitudine di soggetto competente e agente della propria vita. Negli stessi anni,a proporre tale metodo in Inghilterra, fu Samuel Tuke che, parlando della “pazzia”, comunicò gli effetti positivi ottenuti facendo compiere vari esercizi e proponendo un lavoro regolare ai pazienti, affermando inoltre l’esigenza di distinguere vari tipi di occupazione secondo le diverse patologie. Tuttavia, il trattamento morale iniziò il suo declino intorno alla seconda metà del diciannovesimo secolo per poi esser ripreso da William Dunton, uno dei fondatori della disciplina degli Stati Uniti, riconoscendo in quest’ultimo uno dei principi nodali della Terapia occupazionale e definita la continuazione dello stesso. Nel 1908, il suddetto approccio trovò applicazione alla Hull House, nella città di Chicago, grazie all’operato di Eleonor Clarke Slagle che,persuasa dall’importanza delle abitudini di vita dei malati mentali, si profuse per ricercare delle strategie finalizzate al ripristino delle suddette e alla modifica di quelle deleterie.

Un’altra personalità di vaglia che diede un apporto significativo alla nascita della professione fu Adolph Meyer, sostenitore del concetto secondo il quale la malattia mentale discende da una non adeguata interazione tra il soggetto e l’ambiente e da uno squilibrio tra lavoro e gioco. Per far fronte a tale problematica, Meyer proponeva programmi terapeutici che dessero ampio spazio alle attività giornaliere creative, produttive e gratificanti. Alle soglie della nascita ufficiale mentre in Europa galoppava inesorabile il fenomeno dell’Industrializzazione, nacque con tono protestatario in Inghilterra il movimento per le arti creative e le attività artigianali, volto ad esaltare la peculiarità del fare manuale rispetto all’omologazione industriale imposta dalle esigenze della fabbrica. Frattanto, dopo varie influenze subite e la diffusione di queste metodiche in buona parte delle strutture psichiatriche degli Usa e di gran parte dell’ Europa, la professione venne ufficializzata nel 1917 grazie alla definizione di “Occupational Therapy” fornita da George Burtun e alla volontà di altre personalità di spicco come Susan Cox Johnson, Susan Tracy, Thomas Kidner e Hebert Hall, cui unione portò a quella che attualmente è riconosciuta come associazione americana della terapia occupazionale (AOTA). Preso atto del contesto storico, l’assiologia del fare si estese anche agli ospedali militari, nei cui spazi invalse la pratica di curare attraverso la pratica ergoterapica i soldati di ritorno dalla guerra, e ai tubercolosari. L’esigenza sempre più crescente di tale professione portò sia alla creazione del primo reparto di Terapia occupazionale (dopo l’ufficializzazione sotto questo nome) in uno ospedale Psichiatrico di Glasgow in Scozia, e sia all’istituzione della prima scuola di Terapia Occupazionale nel 1930 a Bristol, in Inghilterra. Un’ulteriore svolta avvenne nel secondo dopoguerra in quanto ci fu un’ottimizzazione della pratica anche grazie ai contributi forniti dalla tecnica riabilitativa, e a ciò si accostò inoltre l’ipotesi di elaborare dei programmi terapeutici mirati al rientro nel mondo del lavoro delle persone disabili. Si evince da sé che la Terapia occupazionale iniziava ad assumere sempre più una propria identità trovando applicazione in strutture di vario genere, non solo psichiatriche, e in vari paesi d’Europa, esondando i confini statunitensi. Al netto di ciò, con lo scopo di promuovere ufficialmente su scala mondiale la professione, nel 1952 a Liverpool si riunirono dieci nazioni (Canada, Danimarca, Gran Bretagna, Sud Africa, Svezia, Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, Israele e India) che diedero vita alla Federazione Mondiale dei Terapisti Occupazionali, le cui soluzioni hanno generato nel tempo l’attuale adesione di 50 paesi, tra cui anche l’Italia. Tuttavia, lo sviluppo della disciplina in Italia avvenne in tempi successivi rispetto ad altri paesi del mondo occidentale, anche se tra la fine del XIX e gli inizi del XX sec, nell’ambito pedagogico, Maria Montessori è da considerarsi una dei predecessori. Il suo pensiero riponeva notevole importanza nel valore terapeutico del fare e nella stimolazione di interessi e capacità proprie del soggetto mediante l’attuazione di azioni manuali e mentali in un ambiente idoneo. Rimarchevoli contribuiti vennero forniti anche da ulteriori personalità di spicco come Sante De Sanctis, (il quale dotato di una ragguardevole esperienza in Canada, ebbe l’idea di istituire dei corsi presieduti da due Terapiste occupazionali canadesi in Italia) e Gherardo Gerundini che, nel 1950, con l’appoggio dell’Istituto Nazionale per gli Infortuni sul Lavoro (INAIL), strutturò il Centro per la Rieducazione al lavoro dei Minorati da infortunio, dove il lavoro era privilegiato. Da qui, l’approccio ergoterapico prese piede in vari centri INAIL e si affiancò successivamente, grazie anche all’iniziativa di Dante Costanzo, al reinserimento occupazionale di soggetti vittime di traumi subiti sul lavoro. Ciò nonostante, la metodica di Terapia occupazionale odierna è da ascrivere ad un’anziana suora Americana, Madre Francesca Chiara, formatosi negli Usa e trasferitesi poi in Italia, dove mediante l’organizzazione di un piccolo reparto di TO, contribuì all’ampliamento della professione. Seguitò la nascita di vari Centri di riabilitazione e di reparti di TO, grazie alla dedizione di persone come Giovanni Bollea, Ciro di Gennaro, Adriano Milani Comparetti e Glauco Mastrangelo. Inoltre, verso la fine degli anni 50, il neuropsichiatria Maurizio M. Formica, ebbe l’incarico di dirigere il reparto di Terapia Occupazionale allocato nella clinica di malattie nervose mentali, a Roma, dove furono compiuti considerevoli progressi terapeutici per il raggiungimento dell’autonomia nelle attività di vita quotidiana, tale che è in questa struttura che si formarono molti medici e terapisti dediti alla professione. Al contempo, tra gli anni sessanta e settanta ebbe inizio, non solo in Italia ma un po’ in tutto il mondo occidentale, un periodo di specializzazione che coinvolse tutte le aree legate alla medicina, tra cui anche la Terapia occupazionale; ciò contribuì ad accostare alla disciplina un’accezione soprattutto tecnico-medica, rafforzata in un secondo momento dalla de-istituzionalizzazione in ambito psichiatrico, rappresentata dalla sostituzione di strutture di degenza con programmi di salute mentale sul territorio. Tuttavia, i contrasti maturati da cosiffatta situazione, spinsero diversi terapisti occupazionali al ripristino di un fare terapeutico non unicamente focalizzato sulla patologia. In virtù di ciò, conseguì un periodo permeato dalla ricerca e dalla delineazione di modelli teorici per la pratica della terapia occupazionale (MOHO, MOVI, CMOP) e nel 1977, in Italia, prese forma l’associazione Italiana di Terapia occupazionale. E’ anche per merito dell’impegno profuso dall’AITO che fu possibile la realizzazione di scuole di terapia occupazionale all’interno di diverse università italiane, cui seguì, grazie al decreto ministeriale della sanità nel 1997, l’istituzione di corsi preposti alla formazione esclusiva di terapisti occupazionali a dispetto di ciò che era stato fatto precedentemente.

Come corollario dell’analisi storico-evenemeziale, si palesa un itinerante percorso di riempimento concettuale calcato dalla nozione di occupazione che, secando le varie temperie sociali e spaziando in multiformi dintorni semantici (da occupazione intesa come attività ricreativa,fino ad un concetto associabile a quello odierno di lavoro, e ancora, da attività abituali che caratterizzano la vita dell’individuo ad un fare che conferisce identità, ruolo alla persona) si è consolidata in una definizione nitida e necessaria, eppur tuttavia non ancora sufficiente: nonostante l’istituzione di vari organi preposti al sostegno della professione, tra cui anche il comitato dei Terapisti occupazionali della comunità europea (COTEC), cui scopo è anche quello di collegare le associazioni nazionali dei TO in Europa e favorire la divulgazione didattica e la ricerca, nel nostro paese, rispetto ad altre branche della medicina l’ergoterapia risulta ad oggi marginale e retriva. Molto probabilmente quanto detto si verificò anche a causa del ridotto spazio riservato alla TO all’interno della Scuola per terapisti della riabilitazione (valida in precedenza e nella quale vigeva la triade ”terapia occupazionale, fisioterapia, logopedia”), cui seguì una doverosa richiesta di avere una preparazione più globale e incisiva, nella convinzione che un’applicazione sistematica della professione possa sottintendere una serie di benefici distribuiti su più registri d’ordine antropologico, sociale, individuale.

Riferimenti: 

https://www.aito.it/aito/la-terapia-occupazionale-ti-aiuta

Helen S. Willard, Clare S. Spackman; Terapia Occupazionale (2008); 10° Ed; Antonio Delfino Editore 

Julie Cunningham Piergrossi; Essere nel fare. Introduzione alla terapia occupazionale (2006); Franco Angeli Editore

Edo Bonistalli, Lorenza Narbona; Terapia occupazionale o terapia esistenziale? (1990); Bulzoni Editore

Glauco Mastrangelo; La Terapia occupazionale nell’età evolutiva (2014); Cuzzolin Editore

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