Ciascun uomo brama la carne della sua donna; e se Pensiero è Uomo sua donna è Filosofia. Più che un esergo, un’indissolubile trama, indettata dalla arsura prosciugata dal desiderio. Il desiderio, che nella sua comparsa cela e ad un tempo annuncia un’assenza positiva, si propone sugli altri quale vero volano di ogni moto d’esistenza. Esso è fin già nella sua costituzione un destino segnato, giacché fa capolino già sempre quale istinto d’estinzione con-vocato alla sua meta. In quanto ciò, cara Iuvina, se intenti un volteggio sulla sfilata crescente di parole, converrai che è proprio il suo essere per costituzione un destino segnato, che lo definisce quale istinto d’estinzione convocato alla sua meta, e tale con-vocazione, in quanto perentoria ed altrimenti insanabile scoscende per i solchi rocciosi, scevra di battute d’arresto interne, indiziandone gli alvei più convenienti alla sua risoluzione; sicché ogni desiderio, in quanto destino segnato è anche e soprattutto segno del suo destino; la sua maniera di essere segno è inflessa nella sua maniera di essere qualcosa chiamata dal nulla solo in virtù di qualcos’altro; è un ghirigoro che sorge e trapassa correndo da un punto all’altro senza una ragione propria ma solo in ragione dei punti che sposa.
D’altronde il suo etimo rimanda alle stelle, (desiderium: de– assenza, –sidus, sideris, stella), riportando sul nostro davanzale argomentativo il suo peculiare apporto definitorio; fin dalle comprensioni originarie il desiderio riluce sul volto una missione di portato cosmico, assunta a mastice fra cielo e terra, a concordare gli armonici su uno spartito di contrappunti. Dalla terra materna si levava l’anelito al tepore celeste di stelle lontane e il suo permanere sostanziale era legato al non sussistere del suo genitivo. Esso dunque guizza dal limitare d’orizzonte che separa la continuità di due sfere chiamate all’implosione: sono distinte in sé, neutre e definibili nella astrattezza del loro concetto, ma unite nel sigillo di chi arde di desiderio nel suo per sé, giacché il per sé dell’una chiama nel suo realizzarsi socio in affari l’ in sé dell’altro; ogni in sé, se eccitato dal de-siderio di un amante, è chiamato nel vischio di qualcosa che è insieme essere e nulla, in quanto qualcosa che non è ancora solo in vista del suo esser qualcosa; qui si incespica, se in effetti ci si pensa, in un altro cerchio: il suo non essere ancora è determinato solo dal suo esser qualcosa e il suo esser qualcosa è determinato dal suo non essere ancora. Il desiderio porta gli estremi di cui è mediatore a giocare con l’essere e il nulla negli alambicchi degli alchimisti.
In estrema sintesi, il desiderio è un trapasso di fiamma che è tale solo in virtù di qualcos’altro; riconosce dunque la sua ragion d’essere solo nel suo essere ragione di rimando: e con ciò lo abbiamo detto un destino segnato, per trarci fuor dall’impaccio di una pedante coreografia assegnata al profluvio di parole antecedente, e in virtù di ciò un segno del suo destino, una traccia che reca in sé l’indirizzo a cui è orientato e a cui tributerà la sua morte una volta giunto in apice del suo altare finale; e per ciò un mastice che raccorda i suoi termini, togliendoli dall’indifferenza e intrecciando in unica trama il loro accadere, nel gioco di rincorsa che disciplina il rapporto fra essere e nulla. Infatti chi desidera trasporta il suo spirito in un qualcosa-paradosso: nel qualcosa che non è ancora solo perché è già in origine, e nel qualcosa che è già in origine solo perché non è ancora; Tale è il desiderio.
Ma chi è il desideroso? Il desideroso è colui che è il suo non essere ancora e sceglie di cessare di essere il suo non è,, stimando un essere altro da sé il punto di congiungimento con il suo esser se stesso; anche qui si ripropone il gioco anulare di essere e nulla, giacché il desideroso è colui che stima un suo essere quale non essere sé e un suo non essere quale suo essere autentico.
E il desiderato, mia cara Iuvina? Il desiderato si dice in molti modi: secondo se stesso egli è il grande indifferente, è la pienezza dell’essere puro che in sé e solo in sé riposa, che tale si preserva sintantoché permane escluso dalla grande trama tessuta all’uncino dal desiderio; dopodicché va detto secondo il rapporto a cui lo incapestra il desideroso, e in rapporto a quest’ultimo va enucleato; allorché coincide con il punto in cui il desideroso scopre il suo non essere già a causa al suo (voler) essere ancora, e di nuovo a riciclo il suo essere ancora a causa del suo non essere già.
Sicché si rende palmare che il gioco di riciclo di essere e nulla accompagna le trame del desiderio dalla culla alla tomba, avvitando il cerchio in una spirale che non ammette fine al suo penare, come un novello Sisifo che mai apprende il passo successivo al crinale sommo della montagna.
Scivolando in tale intrico il pettine si è arrestato al suo nodo: risaliamo la china del raziocinio e commentiamo l’esergo incipitale: Quando il pensiero prende a concupire le carni della filosofia? Quando esso prende coscienza del suo non essere ancora e sceglie di cessare di essere ciò che non è in vista del suo essere autentico; perché esso dovrebbe autenticarsi con la filosofia, perché dovrebbe saziare la sua gola sitibonda con questo fuoco greco e non già con altri ardori?
Sappiamo la Filosofia essere calda amante, che senza posa tiene dietro le fumose della Sapienza postulando un punto d’arrivo che puntualmente slitta in avanti, in quanto disincantato abbaglio di un sentiero senza fine; anche la filosofia brama la sua carne. E questa carne non dimora nell’essere della sapienza, ma nel non essere costante di tale sapienza. In ciò essa si inquieta riscoprendosi sorella del desiderio stesso, in quanto il suo respiro esala laddove comincia la sapienza e viceversa; anche essa nella sua costituzione cela ed annuncia un’assenza positiva e da tale assenza, séguita a parassitarne la sua linfa vitale. Sicché a rigore possiamo concludere che desiderare la filosofia significa in realtà desiderare il desiderio stesso. Questo cambio di passo ha lo stesso portato rivoluzionario di chi baratta la preda con il predare: tieni la volpe e rendimi l’arco!
Significa che il pensiero, essendo il suo non essere ancora e volendo non essere più ciò che non è, stima l’esercizio del filosofare quale riappropriazione cosciente di ciò che non può non essere, ossia desiderio: e la riappropriazione cosciente di ciò che non può non essere, ossia costante desiderio, e dunque del suo essere autentico, la chiamiamo giustappunto Filosofia; con tale orientamento il pensiero non spezza il riciclo di essere e nulla sopra delineato, ovvero il suo non trovare requie in desiderati che denunciano ogni fine quale suo cominciamento, ma prende coscienza all’interno di essa (la Filosofia) del suo non poter essere altrimenti, e dunque del suo essere autentico, che nella misura in cui viene desiderato, si presta all’adesione perfetta dei suo confini circolari prima sovrascritti da costanti linee di taglio; e qui il trapasso dalla linea al cerchio si declama nell’antifona della massima nietzschiana: Diventa ciò che sei!
Questa adesione perfetta dunque non significa statico riposo dell’essere ricongiunto a se stesso, ma ricongiungimento cosciente del non essere ancora il proprio essere all’essere sempre il proprio non essere in quanto non poter essere altrimenti; e ritrovarsi come tale non significa aver preso la volpe, ma aver impugnato l’arco.
Dunque albeggia la questione, del quando si dà pensiero autentico rispetto al pensiero parvente? Il pensiero autentico, ossia il pensiero cosciente che si muove ricongiunto con il suo essere si dà quando esso ritorna nel perimetro del suo cerchio e ri-cerchia tale perimetro, in quanto ciò che desidera è il filosofare, e in ciò ritrova il coraggio di rincoccare gli strali acuminati al suo arco; quando il pensiero si compiace della volpe si spegne come la vista di un ceco che mira lo specchio e contempla una linea laddove in realtà rifulge un cerchio.
Aristotele afferma nella sua Etica a Nicomaco che l’uomo trova la felicità nella funzione che le è propria, ossia nell’esercizio di quella parte dell’anima che è sua in quanto solo a lui pertiene, cioè l’anima razionale, quando questo esercizio si esprime nella sua areté (eccellenza), e quando nella sfera del razionale la sua facoltà calcolativa riesce a deliberare i mezzi per pervenire al fine morale che in forza della areté etica (eccellenza caratteriale) l’uomo ha accolto fra i suoi desideri: la sintesi fra la rettitudine del desiderio e il procedimento retto della ragione costituisce il perno del pensiero pratico, che si assurge ad officina della scelta (proaeresis) dell’uomo. E su questa falsa riga soggiunge, nel libro Z della stessa opera la seguente massima, che ben corona quello che è stato il nostro ragionamento: “la scelta è intelletto che desidera, o desiderio che ragiona, e tale principio è l’uomo”.
Riadattato da
L. PRICOLI, Pro Iuvina, Sibari 2020