L’anno 1816 rappresenta per Humboldt la vetta di un lavoro ventennale, che viene coronato con la pubblicazione dell’ Aeschilos Agamennon, metrisch übersetz von W. v. Humboldt e, più in generale, si rivela un anno fecondo per le scienze linguistiche, ancora in fase embrionale, ma impegnate in un’ascesa dirompente, in quanto viene dato alle stampe l’opera di Franz Bopp, destinata ad essere assieme all’opera di Schleghel (Ueber die Sprache und Weisheit der Indier), la testata d’angolo di un nuovo sistema d’approccio al tema del linguaggio.
Il titolo prolisso con la quale mette capo al resoconto delle sue ricerche (Sul sistema di coniugazione della lingua sanscrita, in confronto con quello della lingua greca, latina, persiana e germanica) esprime eloquentemente quella fase iniziatica, in cui si intravedeva all’orizzonte una rivoluzione epistemica in termini di contenuto, estensione e metodo; era l’albore della linguistica storico-comparativa, che ancora nel suo incunabolo si legò inscindibilmente al violento colonialismo europeo, da cui ricevette un impulso decisivo per dilatare l’ampiezza del proprio bacino glottologico; con lo scacco al sub-continente indiano gli occidentali familiarizzarono in una mistura di fascino e supponenza con i costumi esotici, acquisendo gli strumenti per decifrare la criptica lingua della tradizione indiana, il sanscrito, sino ad allora gelosamente custodita dalla casta (varna) sacerdotale dei brahmini.
Nel 1786, il giudice inglese Sir William Jones, fervente cultore delle lingue orientali, e profondo conoscitore della grammatica sanscrita, al netto di un raffronto sinottico con le lingue della classicità occidentale, ventilò l’ avvenente ipotesi di un legame parentelare con quello che era considerato per lo più un idioma di matrice aliena ed estranea, giustificabile in virtù di “una fonte comune che, forse, non esiste più”. Il discorso di Jones a Calcutta fu impresso negli annali della storia, e fu soprattutto il guado del Rubicone, al di là della quale il dado venne tratto, e la corsa al sanscrito ufficialmente inaugurata. Cosi l’Ottocento si apriva nel segno battesimale di un nuovo questionario, che sovrascriveva le formulazione glottogoniche dell’illuminismo settecentesco, firmate da Condillac e Rousseau, e le analisi grammaticali di Beauzée o Du Marsais, e si volgeva, prometeico verso un nuovo banco di prova: la ricostruzione filogenetica di quel novero di lingue, che verranno definite nel 1813 dal medico Thomas Young indoeuropee.
Franz Bopp dal canto suo, ancora ignaro del neologismo, fu costretto a srotolare un titolo che a ben vedere, ricalcava sul livello grafematico l’estensione areale del raggio d’indagine; quest’ultima, sovrintesa da mozioni ambiziose che, raccogliendo le intuizioni di Jones e Schleghel, ne sviluppava le linee programmatiche, diede il primigenio aspetto metodico e sistematico alla scienza in statu nascendi, riconcettualizzando così i principi della grammatica comparativa, tanto sull’asse cronologico (prima di Schleghel e Bopp le indagini comparative accostavano sulla bilancia sinottica due sistemi linguistici presi nella loro sincronia e staticità, discutendone le prerogative in termini d’eminenza pratica; dopo il loro operato il raffronto verrà inquadrato in una tiratura diacronica e storica) quanto su quello metodologico (se prima il criterio di confronto coincideva con il parallelismo lessicale, nelle ricerche di Schleghel e Bopp la misura si ridimensiona sulla morfologia prima, poi con Grimm e Rask, fino al legalismo dei neogrammatici, sulla fonologia).
In merito al comparativismo pre-ottocentesco, o alcuni direbbero pre-scientifico, si reputa pertinente nonché stimolante addurre come dissertazione vessillifera, il De Vulgari Eloquentia di Dante Alighieri, nella quale si registra un tensione lucubrativa, per quanto rudimentale, sicuramente indicativa della summa ideologica sotto la quale si raccoglievano i modus procedendi dei primevi sforzi comparativi; ivi è possibile palpare la forte ascendenza biblica, la quale suggerisce la cifra di tutta la glottogenesi esposta nel primo libro: il suono del primo parlante, articolava il nome di Dio, El, che si snaturò solo in seguito in heu a cagion della “prevaricazione del genere umano”; dall’ebraico promosso ad archelingua, si frazionarono molteplici favelle (concepite come marchio ignominioso del genere umano) e la letizia di quest’ultimo si preserva intatta solo in vista della venuta di Cristo, affinché “usasse, siccome uomo, la lingua della grazia, non della confusione”.
Dopo Babele insorse ordunque l’esigenza pratica di riunificare la diversità glottologica in un unica grammatica, per arginare quelle che oggi chiameremo le differenze diatopiche; il latino fu una di quelle lingue artificiali che rispose a questa esigenza. Dante passa successivamente in rassegna i dialetti italici, con l’intento di rintracciare “la più colta e illustre loquela d’Italia”, ossia che ottemperi ordunque ai requisiti di “illustre, aulico, cardinale e curiale”, i quali soprintendono un metodo comparativo che misura l’efficacia delle lingua in relazione ai suddetti referenti.
Il senso di marcia della linguistica, nel decorso dell’Ottocento, descriveva una tendenza centripeta, la quale deportava diverse voci verso un centro univoco, dimodoché, animata dall’euforia della disamina singenica, essa accentuava l’interesse verso quei tratti comuni esibiti dalle differenti lingue, che emergevano di volta in volta nelle indagini svolte dagli esponenti di turno; ciò che galvanizzava le disputazioni e magnetizzava la teoresi era principalmente l’attrattiva verso la convergenza e il riduzionismo protolinguistico, nell’alchemico esperimento di avallare nella sezionata torre babelica dell’indoeuropeo le componenti universali.
É emblematico, nel quadro di questa osservazione, lo sforzo effettuato da Schleicher, suggestionato dalle ipotesi di Bopp e dalla tipologia di August Schleghel, di rimontare alle forme linguistiche dell’indoeuropeo originario, reputata la lingua perfetta rispetto alla deriva corruttiva delle sue filiazioni,culminando il suo anelito nella stesura di un favola (avis akvāsas ka), espressa in quella che l’autore pensava fosse la restaurazione della lingua madre. Chiameremo convenzionalmente un siffatto atteggiamento, con l’aggettivo di sil-logistico, mutuando deliberatamente il termine introdotto da Aristotele e dalla felice storia filosofica, in funzione di una qualificazione che, posseduta dalla necessità di dispiegare tutte le sue implicazioni, vi si appella quasi per affinità elettiva; l’accezione che nel nostro co-testo andrà a specificare sarà chiarificata da una riconfigurazione semantica a partire dalla sua composizione etimologica.
Il sillogismo, assunto dalla tradizione nella sua forma sostantiva, è, nella definizione che Aristotele fa nei suoi Analitici I, “un discorso in cui poste talune cose segue necessariamente qualcos’altro per il semplice fatto che sono state poste”; questo rapporto espresso nella esplicitazione della parola è legittimato morfologicamente dal prefisso syn-, che esprime la coesistenza, la relazione identitaria, l’uguaglianza, mentre il contenuto che 14 determina la natura delle cose relazionate si esprime nel tema log-, che contrae logos il cui lemma nella sua polisemia è depositario di una pregnanza sensuale straordinariamente riboccante, da cui volge il significato che predomina nell’accezione aristotelica, ossia quello di discorso, ragionamento; infine il suffisso -ismos imprimendo il soffio della sistematicità e culminando la destrutturazione, giustifica la necessità evocata nell’estensione definitoria.
Di contro, nella presente ristrutturazione semantica si assume il tema logos, valorizzandone nella fatta specie le due accezioni di “discorso” e “parola” (che qui vorremo esasperare interpretandola come “lingua”) che si dispongono nell’atto di dispiegamento della definizione, ordunque nella composizione della proposizione, occupando rispettivamente due statuti logici differenti dell’architettura sintattica.
Sfruttando allora le informazioni apportate dal tema, trascelte ad libitum dal suo fecondo bacino semantico, ne ricaveremo il predicato nominale e il complemento di argomento (che muteremo nel numero) tale da concederci una prima vendemmia, una prima codifica definitoria del soggetto di discussione, il sillogismo preso nell’accezione economica per la dissertazione, sulla scorta delle nozioni distillate soltanto dal tema: il sillogismo è un discorso sulle lingue; a circostanziarne inoltre le prerogative accordategli dalla sua composizione morfologica, subentra il prefisso syn, da cui caviamo le informazioni semantiche di relazione e uguaglianza, per complementare ulteriormente la proposizione, la quale perseguendo l’imperio della sua esigenza significativa viene ridisposta sintatticamente come segue: il sillogismo è un discorso sulla relazione e l’uguaglianza della lingue; una dell’unità 15 semantiche estrapolate dal tema logos, cede il suo ufficio logico e diviene complemento di specificazione; l’ultima istanza della procedura, si perfeziona armonizzando la nozione di sistematicità, contenuta nel suffisso -ismos, nel sintagma nominale che fa capo a discorso come marca aggettivale, per ratificare cosi l’estensione della nuova definizione: il sillogismo è un discorso sistematico sulla relazione e l’ uguaglianza delle lingue.
Tale procedura che si rende metodo nella duplice fase di destrutturazione/ristrutturazione, non ha alcunché di epistemico, ne tanto meno ne soffre la pretesa o l’ambizione, in quanto anela molto più semplicemente a rendere diafana la procedura e giustificare l’assunzione di un termine che, avendo ricevuto dalla tradizione la foggia del cristallo, andava preliminarmente liquefatto e poi nuovo risolidificato nel calco richiesto dalla trattazione. Inoltre, giacché l’economia della disquisizione prende il nuovo conio concettuale nella sua forma aggettivale, per interpretare quell’inclinazione peculiare che traccia la parabola linguistica dell’ottocento, nella sua conversione grammaticale esso sarà foriero della sua stringa di informazioni applicata al termine “atteggiamento”. Da qui in avanti, nella dissertazione, l’espressione “atteggiamento sillogistico” sotto intenderà “l’atteggiamento che discute sistematicamente sulla relazione e l’uguaglianza delle lingue”.
Ancorché la narrativa della linguistica imboccasse per sommi capi il sentiero sillogistico, consacrando le sue energie a compilare gli organigrammi genealogici, in una lettera del 1796 Humboldt scrive ad A. Schleghel, il più grande dei fratelli, esprimendo le sue perplessità in merito all’attività filologica e alla sua adempienza, pronunciandosi come segue: “ogni tradurre mi sembra un tentativo di assolvere un compito impossibile ”. Nonostante lo scetticismo umbratile, che echeggia in questa sentenza, la sua intrapresa filologica, in quell’atmosfera tedesca satura di filo-classicismo – che esploso dal magistero di Winckelmann sembrava aver fecondato tutta la corolla di quel fiore che era l’intellighenzia tedesca, da Goethe a Schiller, fino ad Hölderlin e von Kleist – procedeva sì rapsodicamente, ma tuttavia con animo affiatato.
I suoi moventi erano già stati elucidati qualche anno prima, in uno scritto programmatico titolato “Sullo studio dell’antichità e di quella greca in particolare”, redatto nel 1793, subito dopo il suo incontro con l’ eminente filologo Wolf, e che rimase inedito per più di cent’anni; noi ad oggi possiamo avere adito tuttavia a quello che era il modo di concepire le traduzioni da parte di Humboldt; ivi nell’enucleare i capisaldi e gli ausili necessari ad un metodo d’indagine storica adeguata al costume greco, indulge sul tema delle traduzioni, a cui accorda una triplice utilità8 : la prima di carattere didattico, la seconda d’estrazione sussidiaria, e la terza di caratura spirituale disponendo non solo un trittico di modus operandi proporzionati ai diversi obbiettivi, ma discutendone la teleologia su un ordine crescente d’importanza.
La gerarchia che si viene a profilare riconosce il fastigio apicale nella spiritologia, ossia nell’ambizione di rievocare lo spirito defunto di una cultura, che soffia tuttavia ancora nei vari retaggi tramandati dalla tradizione, e di riproporlo redivivo allo spirito moderno che invasa il lettore che vi s’approccia. L’aspiratio maxima è dunque quella di costituire un crocevia simpneumatico che possa elevare la solerzia della traduzione, attraverso un codice di accorgimenti posto come necessario per adergere il tiro delle operazioni, inquadrandole così in una cornice spiritologica: la fedeltà, nella misura del possibile, alla dizione, al ritmo e alla struttura metrica, che soltanto riescono ad adombrare una palingenesi. Il canovaccio appena disaminato ci fornisce la chiave per comprendere il retroterra filosofico che sostiene il progetto filologico di Humboldt e nella fatti specie la filologia dell’Agamennone, la quale, a ragion veduta si inscrive nella medesima linea d’orizzonte.
Tuttavia qui, l’intento vocazionale, eccitato nell’articolazione delle sue modalità anche dalle idee di Johann Heinrich Voss, si rifranse sugli scogli di una discrepanza strutturale troppo tirannica per essere glissata e troppo evidente per passare sottotraccia allo sguardo della critica, tanto coeva quanto postuma; Eduard Fraenkel, tanto per far sfilare un nome, a suo tempo giudicò severamente lo sforzo humboldtiano definendolo “un monumento alla più profonda incomprensione della poesia e dell’arte greca”. Il principio che ha presieduto l’operato è stato infatti quello della riduzione metrica in una prospettiva spiritologica, che tuttavia forzando la dissonanza fra il metro accentuativo tedesco e il quantitativo greco, ha condotto l’esperimento avviato nella sede laboratoriale in questione inevitabilmente al fallimento.
L’introduzione che prelude all’opera, precisa una totale lucidità vettoriale e una contezza verso le controindicazioni di una qualsivoglia impresa traduttiva, dettati non tanto da una insufficienza metodica, ma da una divaricata strutturale che è in quanto tale, inconciliabile per lo meno su questo specifico registro; egli in virtù della suddetta divaricata, arriva ad asserire che, nonostante sia doveroso che il traduttore non si lasci annichilire da tale situazione fattuale, resta il fatto che “una traduzione diventa tanto più divergente quanto più faticosamente aspira alla fedeltà”.
É in questa sentenza, passata poi alla storia come una della più proverbiali fra quelle collezionate nel campionario di massime a cui gli si riconosce la paternità, che va ricercata la chiave di volta che innesta tutto l’ edificio del suo pensiero; è qui che ricade il peso di un intera struttura ed è qui che è possibile contemplare una sintesi cesellata di tutta un’esedra di concetti cardini, che la seguente dissertazione intende focalizzare. Questo corollario è figlio della seguente constatazione: le lingue sono irriducibili, e le loro parole se accostate, sono al massimo sinonimiche; ciò si spiega dal fatto che “una parola è tanto poco il segno di un concetto che anzi senza essa il concetto non può nemmeno nascere, per non dire che non può venire conservato saldamente; l’ operare indeterminato della forza del pensiero si concentra in una parola, come leggere nuvole spuntano nel ciel sereno”.
La similitudine, che è una figura particolarmente ricorsiva nel linguaggio espositivo dell’autore, rilascia nella sua filigrana la configurazione retorica del fenomeno glossogenetico, asserendo come di parimenti a un cielo terso che si offre dapprima illibato alla vista, e poi viene maculato da nuvole improvvise, senza accogliere in sé la loro fonte, anche la realtà che ospita la parola nel suono materiale non ne giustifica la scaturigine, la quale come un opera d’arte “nasce in virtù di una pura energia dello spirito, e dal nulla nel senso più proprio”. In queste pillole dalle suggestioni filosofiche assai elevate, si palpa un’eterodossia risoluta insita nel pensiero di Humboldt, che lo equivoca rispetto al sinodo sillogistico descritto sopra, non in virtù di una totale difformità di temi, ma in virtù della direzione verso cui tali temi vengono orientati.
Nello specifico è bene precisare come nella qualificazione categoriale antecedente non sussiste, ovviamente, una perfetta omogeneità sul registro formale del pensiero, quanto piuttosto sul registro direzionale che instrada il tema del linguaggio su un sentiero comune; in tale sentiero non si registrano i passi di Humboldt, destinati a un cammino ben diverso, dove il linguaggio non ha alcuna tempra strumentale, e la lingua non è utilizzata come un indicatore di tratti affini, ma contrariamente, il primo diviene la cifra che umanizza l’uomo nell’essere energia che soffia dallo spirito, e la seconda diviene lo scalpello che ne scolpisce un’ identità peculiare, irriducibile; proprio come l’ispirazione muove la mano di Michelangelo sul blocco di marmo freddo, e il David che ivi erompe, guardando negli occhi suo padre, lo proclama non solo artista, ma artista irripetibile, così l’energia dello spirito muove la bocca dell’uomo agendo sull’aria materiale, e il suono che ivi fuoriesce lo proclama non solo uomo, ma uomo irripetibile.
Si evince allora come nel flusso vigoroso della scienza linguistica, che asseconda il solco tracciato dall’alveo sillogistico, von Humboldt non trova cittadinanza, ma sta come un meteco, poiché la pregnanza con cui si approccia al tema del linguaggio lo costringe ad ostracizzarsi verso altre correnti, verso quei luoghi dove lo statuto del linguaggio non è inteso come un mero organo inerte compiuto nella sua struttura, ma come un vero e proprio organismo vivente costantemente in fieri ; Si può asserire d’altronde, senza tema di smentita, che egli nell’analizzare “l’intero cammino del linguaggio”, disdegna il cammino del linguaggio inteso come ἔργον e imbocca quello di un linguaggio inteso come ἐνέργεια.
Sul rapporto che inevitabilmente legò von Humboldt con gli sviluppi teorici e metodici della linguistica, e nelle fattispecie della linguistica storico-comparativa, si esprime molto loquacemente un saggio esposto nel 1820 all’Accademia prussiana delle scienze e pubblicato due anni dopo con il titolo “Sullo studio comparato delle lingue in relazione alle diverse epoche dello sviluppo linguistico”. Quello fu l’anno in cui decise di ritirarsi nel castello di Tegel accomiatandosi dagli incarichi politici e pubblici che tanto aveva onorato nel decorso della sua biografia, al fine di potersi dedicare con maggiore solerzia allo studio del linguaggio. “Lo studio comparato delle lingue” – esordisce nella dissertazione – “ può condurre a sicuri e considerevoli chiarimenti sul linguaggio, sullo sviluppo dei popoli e sulla cultura umana, solo quando lo si renda uno studio specifico che rechi in se stesso una propria utilità e il proprio scopo.”
L’utilità e lo scopo non coincidono come nella linguistica storico-positiva in una ricostruzione filogenetica, ma si prefigge il supremo obbiettivo di inquadrare con dovizia tutti quegli elementi in parvenza irrilevanti, che cuciti insieme costituiscono quell’”organismo finemente intessuto” che è la lingua. Il punto critico in cui si discosta dalla trattazione scientifico-positiva della lingua muove proprio dall’equazione che egli opera fra organismo e lingua: quest’ultima proprio come il globo terrestre non si è ingenerata nella sua completezza ma ha conosciuto una diacronia storica nella quale ha operato dei mutamenti continui senza mai esaurirsi in una struttura, che possa definirsi l’ultimo livello d’organizzazione. Tuttavia proprio come il globo terrestre, esiste un compiuto grado d’organizzazione, che una volta configurato ne calcifica l’osteologia grammaticale, e a partire della quale il fenomeno mutazionale abbandona la dimensione profonda e si sposta sul registro epidermico del lessico, stimolando il prosieguo organico della lingua; il cammino energetico del linguaggio, ci informa Humboldt, si scandisce in tre tappe focali:
“- la prima ma completa formazione della loro struttura organica; – le trasformazioni per commistione con elementi estranei fin quando pervengono a un nuovo stato di stabilità; – il loro interno e più affinato perfezionamento, quando la loro delimitazione esterna (verso le altre lingue e la loro struttura) siano fissate nel complesso in maniera immutabile;” Aggiunge poi sotto a questa schematizzazione, che al contrario dei primi due momenti i cui confini quali trapassando l’un nell’altro ne rendono scabrosa la delimitazione geometrica, il terzo è perfettamente discernibile e si differenzia sostanzialmente e cronologicamente.
Poiché è il termine organismo che domina e campeggia l’intera disquisizione, si intuisce come la sua presenza sia foriera di implicazioni disarmoniche, che incompatibili con una perfetta sovrapposizione alla linguistica positiva, ne schiudono uno iato; se in questo agone dialettico, di estrazione sillogistica si consumavano tenzoni teoriche in merito alle lingue indoeuropee in relazione alla defunta lingua madre, muovendo dal raffronto di singoli elementi discreti, molto sommessamente Humboldt protestava contro il predetto modus operandi annunciandone la sterilità, in nome di un pretermesso titolo nobiliare, con cui andava fregiata ogni lingua: il titolo d’organismo. Egli polemizza così: “si è creduto di fare abbastanza quando si rilevarono singole peculiarità grammaticali divergenti e si compararono tra loro serie più o meno numerose di parole. Anche l’idioma della nazione più rozza è però un’opera della natura troppo nobile perché sia frazionata in parti tanto accidentali e presentata in maniera tanto frammentaria. Esso è un essere organico, e come tale lo si deve trattare”.
Ciò lo induceva ad elaborare dei giudizi più cauti circa le parentele di una lingua, in quanto le diverse confluenze si potevano spiegare in virtù della seconda fase del processo formativo di una lingua, dove quest’ultima ancora in assetto confusionario si assesta anche grazie al commercio di elementi che intraprende con le lingue circonvicine, le quali contribuiscono inevitabilmente a forgiarne la struttura e a tracciarne l’identità. Su tali premesse l’ analisi comparativa deve adagiarsi con criterio sistematico, ma anche con una sensibilità metodica che proporzioni le modalità d’indagine all’aspetto del linguaggio su cui si intende discettare; sicché essa si compone di due protocolli, dovremo distinguere l’indagine sull’organismo (che copre le prime due fasi dello sviluppo linguistico, in quanto approssimativamente omogenee e non rigorosamente delimitabili) e l’indagine delle lingue nella fase del loro perfezionamento (che disseziona la fase della formazione superiore e dell’affinamento della lingua) e solo alla luce di questo distinguo è possibile separare il tratto fisiologico insito nel linguaggio che lo eleva al grado di organismo, da quello storico che lo specifica nelle sue differenti declinazioni; se il primo esige un ragguaglio poligrafico ampio fra più lingue al fine di definirne gli interscambi, la seconda richiede una penetrazione profonda sin dentro i capillari di ciascuna singola lingua, al fine di stilare una monografia e afferrare la sua peculiarità organica; successivamente sarà necessario focalizzare la disamina sulle sezioni singole della struttura linguistica e discuterle comparativamente, tale da rintracciare quei fili spirituali che ricamano l’ ”organismo finemente intessuto”, e che si sgomitolano tanto latitudinalmente (che intrecciano le parti omogenee di tutte le lingue, e come tali riconducibili all’attitudine universale che investe tutte le nazioni), quanto longitudinalmente (che intrecciano di contro tutti quegli elementi che costituiscono i connotati individuale di ogni singola nazione).
Da questa scarna sinossi, si può tuttavia subodorare un principio che colora il suo ventaglio d intenti, il quale lungi dall’essere sillogistico, si colloca piuttosto nella parte opposta del diametro; ciò che interessa la sua intensione investigativa non è infatti l’ affinità delle lingue, ma di contro la diversità che dimora in ciascuna di esse; l’impronta di Humboldt si definisce modo chiaro quando chiosa la seguente annotazione: “La separazione qui tentata costituisce due differenti parti dello studio comparato delle lingue, dalla cui pari trattazione dipende la sua completezza. La diversità delle lingue è il tema che deve essere trattato sulla scorta dell’esperienza e in base alla storia e precisamente nelle sue cause ed effetti nel suo rapporto con la natura e gli scopi dell’umanità.
La diversità linguistica si presenta però sotto un duplice aspetto: una volta come fenomeno storico naturale, come inevitabile conseguenza della diversità e separazioni dei popoli, come ostacolo all’unione immediata del genere umano; poi come fenomeno teleologico-intellettuale, come strumento costitutivo delle nazioni, come veicolo della più ricca varietà e maggiore peculiarità di prodotti dell’intelletto, come artefice di un’unione della parte colta del genere umano fondata sul sentimento reciproco dell’individualità e per questo più intima”. Eloquente passo estrapolato dall’opera, solca il pomerio che circonda lo spazio vitale dell’autore, la nicchia filosofica incavata in un andito del paradigma linguistico vigente, teso nel suo slancio sillogistico, e che vede questo suo figlio attardarsi su riflessioni che a rigor di retorica potremmo definire dialogistiche.
Senza inabissarci ulteriormente nei fondali etimologici come dianzi effettuato, ci limiteremo a sostituire le informazioni semantiche del prefisso syn- con quelle del suo antonimo dia-, che è depositario sensuale della nozione di relazione traversa, di diversità, cavandone così la seguente proposizione definitoria: il dialogismo è un discorso sistematico sulla relazione e la diversità delle lingue. Il concetto di dialogismo si forgia dunque, patentemente per antitesi e preserva una comunione con il suo antonimo nel sema di “relazione”, il cui senso ricorre in entrambi i prefissi, tuttavia con sensi diversi.
Questa antinomia conviene ai termini in questione non nella sua estensione rigida, e la sua divergenza non s’impone nell’accezione assoluta ma per gradi crescenti di intensità, al fine di massimizzare la messa a fuoco di un sistema testo-contesto, e per inquadrare meglio il domicilio di Humboldt nei rispetti del suo tempo, cosicché da fornire maggiori strumenti cognitivi e, scongiurando il radicalismo e il rischio di mistificare un ereticismo in maniera gratuita, apprezzarne al meglio il suo portato teoretico, ma ancor più filosofico, cogliendone le sfumature sottili e le velate implicazioni, che hanno accreditato le ricadute esegetiche; è dunque nei termini di sillogismo/dialogismo che è possibile interpretare da un lato il terreno generale e dall’altro il cammino individuale che tracciato nel terreno medesimo educe verso altri paesaggi.
Donatella di Cesare nell’illustrare i tratti peculiari del comparativismo tipologico di Humboldt si esprime così: “Dal rifiuto a vedere nel linguaggio un oggetto naturale scaturisce anche la sua ferma [di Humboldt] opposizione ad ogni tentativo di classificare le lingue. Nella natura gli oggetti vengono classificati secondo i tratti che li accomunano ad un genere; nel linguaggio non è invece possibile, tra i due poli dell’universalità e dell’individualità estrarre quei tratti che consentono la costituzione di un genere, di una classe. […]E nella loro individualità [le lingue] devono essere indagate”. Il linguaggio per von Humboldt era si un organismo, ma non riconducibile alla natura, bensì allo spirito, sicché esso sfuggiva a qualsiasi tentativo di costrizione meccanicistica o di fissazione tassonomica, ispirata ai progressi della scienza biologica che al tempo era trascinata da quella generazione di studiosi, cresciuti nel segno ascendente di Buffon e Linneo, destinanti a incrinare il modello vigente e a consegnare alla storia un nuovo paradigma.
La linguistica risentì palesemente del fascino della biologia tassonomica prima, e poi anche della biologia evoluzionistica; a riprova di ciò si può rammentare la celeberrima disputa intrapresa dai linguisti, al fine di sanzionare lo statuto epistemico della nuova disciplina la quale oscillava, nella diatriba, fra due estremi che delimitavano il campo della contesa: la scienza psicologica e quella naturale. Fra i propugnatori della prima riduzione possiamo rimandare a Steinthal, mentre fra i secondi spicca Schleicher. Per quest’ultimo infatti, le lingue similmente agli oggetti naturali, cadenzano il loro sviluppo sotto i dettami di leggi fisse, e l’indagine sulla loro evoluzione, la quale soggiace alla necessità, deve essere espletata dalla “linguistica”, che esibirà dunque, in virtù del suo oggetto di studio, una impronta necessariamente scientifica; a questa poi si contrappone la “filologia”, che contrariamente alla prima, è una disciplina di carattere storico giacché prende in carico solo quei fenomeni intaccati dalla libertà umana, ossia quei fenomeni ad alto tasso di accidentalità.
Se si trasvola nell’altro polo, incarnato nel pensiero linguistico di Steinthal, ci troviamo invece nel cuore dello psicologismo linguistico: lo studioso infatti, persuaso che le fasi del linguaggio siano in realtà un indice di sviluppo intellettivo dell’individuo, e al contempo un valore inquadrabile anche su una scala sociale, imposta la sua linguistica sulla nozione di “etnopsicologia”, al fine di restituire il portato di questa duplice implicazione, e utilizza come vincastro d’appoggio teorico la psicologia di Herbart, mutuando da essa i concetto di “rappresentazione”, “meccanica psichica” e di “soglia di coscienza”. Con il primo termine si suole designare i contenuti mentali, pervenutici dai sensi, mentre con il secondo si denota la dinamica associativa di tali contenuti, ed infine con il terzo si intende la capacità limitata che la coscienza espone nell’ospitarli; è proprio al netto di questa ristrettezza che, secondo Steinthal, è possibile giustificare una serie di fenomeni linguistici come ad esempio la linearità delle unità linguistiche; egli ebbe a dire: “L’uomo non pensa in modo discorsivo, cioè in modo seriale, perché è in questo modo che parla, ma parla solo in questo modo, perché è in questo modo che pensa”.
Il nostro autore si sforzò invece di inalberare una bandiera d’indipendenza per la linguistica degli esordi, nonché di ubicare il linguaggio in modo tale che s’accostasse il più possibile all’arte e alla sua forma, ovvero somma pronuncia dello spirito nelle speculazioni estetiche del momento; nelle dissertazioni di Humboldt non sono poche infatti le analogie fra il parlante e l’artista, i quali condividono il mondo della fantasia come luogo in cui lo spirito e la forma prevarica sulla natura e la materia; di tutto ciò è doveroso operare un approfondimento che merita respiro adeguato ed esaustivo, mediante un metodo circolare che definendo gradatamente i concetti cardine su cui poggia la filosofia humboldtiana stringa il diametro del cerchio sino a pervenire al cuore stesso della medesima. Qui, in questa breve introduzione, si è voluto solo esaudire l’imperativo di una contestualizzazione preliminare che sagomasse per sommi capi gli spazi in cui tale cuore si è trovato a palpitare.
E palpitando si esprimeva in questi termini: “cogliere il mondo nella sua individualità e nella sua totalità è stato la mia aspirazione assoluta”. E da questi termini si dischiudeva un intero capitolo della storia della filosofia che è stato troppo spesso sottaciuto o minimizzato nei suoi subliminali accenni, o frainteso in larga parte in quanto interpretato enfatizzando uno dei due poli a scapito dell’altro, senza com-prendere l’intero campo magnetico, l’intera tensione che negli scritti di Humboldt resta sempre vivida e accarezza ritmicamente, come un pendolo, tanto l’universale quanto l’individuale. E Humboldt, dirimpetto un binomio che sembra incombere minaccioso come un aut- aut, ha ricusato il contegno di Agamennone – che dianzi alla tragica condizione a cui era stato costretto dalla dea Artemide, pur di far il bene generale e far salpare le navi, scelse di sacrificare sua figlia – e ha cercato, nella misura del possibile, di considerare il generale senza immolare l’individuale conciliando la linea e il cerchio. Seguendo il cammino dialogistico, ci si imbatterà in quei principi con cui ha maturato una siffatta concezione articolata, in quei nodi in cui i termini focali s’intersecano e interagiscono, muovendo dalla quella diversità che sembra sdraiarsi trasversalmente sotto le sue cogitazioni: una diversità dello spirito, una diversità della storia, una diversità delle lingue.
Riadattato da:
L. Pricoli, L’energia dell’Uomo, Il linguaggio secondo von Humboldt, Perugia 2019
Altra Bibliografia:
G. GRAFFI, Due secoli di pensiero linguistico. Dai primi dell’Ottocento a oggi, Carocci, Roma 2016
DI CESARE, Introduzione a W. von HUMBOLDT, La diversità delle lingue, tr.it. e cura di D.di Cesare, Laterza, Roma-Bari 1991,
W. v HUMBOLDT, La diversità delle lingue, tr.it. e cura di D.di Cesare, Laterza, Roma-Bari 1991,
W. VON HUMBOLDT, Introduzione alla traduzione dell’Agamennone di Eschilo, trad. it. Giovanni Moretto, Scritti filosofici, a cura di Giovanni Moretto e Fulvio Tessitore, UTET, Varese 2007
ID, Sullo Studio dell’antichità e di quella greca in particolare, Scritti.. cit
ID, Sullo Studio comparato delle lingue, op.cit.
M. HEIDEGGER, In cammino verso il linguaggio, trad. it. Alberto Caracciolo e Maria Caracciolo Perotti, Mursia, Milano 2018,