Concordia
28 luglio 1794: Soffuso fischia il vento da Place de la revolution, dove a suo tempo campeggiava imperturbata la statua del “fu Luigi sua altezza reale”, e dove realmente la stessa altezza egli fu costretto a cedere in un sibilo sordo, foriero del nulla o forse solo dell’imminenza dei suoi occhi impiastrati di sangue e fango, riversi in quel tanto deprecato suolo, appaltato dalla Nemesi della grande dinastia di Borbone. Fischia il vento aurorale e si schianta sui i bastioni della Conciergerie, sulle opache finestre, ne solleva i batacchi delle porte, quasi a rilasciare il tonfo premonitore che è banditore di morte. E tale tonfo s’insinua come un chiodo nel suo febbricitante delirio, e benché nella sua supina positura, annebbiato e madido, sente di colpo il profumo della Grande Consolatrice lambirgli delicatamente il petto, mentre combatte con il denso flusso di sangue che dalla frantumata mascella cerca con protervia di soffocarne l’esistenza, strappandolo al furore della folla che già dalle prime luci geme e si accalca in attesa che ciò che ha da essere sia, e lo sia in via definitiva. Nella sua passeggiata patibolare, avvolto in un’ ampolla d’ovatta, tutto attorno a sé sembra sbiadirsi e il suo spirito si assenta dallo sguardo vitreo, e si abbandona al rimorso e al rimpianto verso la figura del “Legislatore Illuminato” di J.J. Rousseau , figura che ingenuamente aveva creduto di personificare interpretando le cene indigeste della volontà generale. Ed eccola la detta volontà, che ora cantava le lodi della suo carisma e ora ringhiava gli sputi dell’odio verso il suo corpo malconcio e contuso, trascinato alla catena dalla stessa Nemesi che ha patrocinato il suo predecessore. E nelle sue acrobazie pindariche gli sovviene l’eco de “Il Contratto Sociale”: “L’uomo è nato libero e dappertutto è in catene. Chi si crede padrone degli altri non è meno schiavo di loro.” Questa la massima, questa la sua estrema unzione. Poi la gola lamenta la pressione umida del legno, e un soffio gelido gli sussurra sul collo che l’ora è giunta, mentre dalla folla eccitata si leva un impeto: “Il Maximum è fottuto”.
A termidoro dell’anno II, con il benestare della assolata Parigi, nella putrida piazza della Rivoluzione, ora Piazza della Concordia, la testa di Robespierre rotolava via dal patibolo, arrestando il suo moto esattamente sull’impronta lasciata l’anno prima dallo sventurato Luigi.
La rivoluzione della Rivoluzione
Le primizie di un movimento rivoluzionario concettualizzato sono per consuetudine il ritratto di una cornice semantica più elevata, che puntualmente ne inquadra il contenuto sub specie aeternis, e facendo astrazione dei suoi buoni propositi ne insterilisce gli obbiettivi con un latente colpo di mano, una elegante castrazione.
Assunto che la storia magistra vita est, apprendiamo dalla sua bobina che nel fondamento di ogni rivoluzione si presuppongono due elementi complementari, l’uno negativo e l’altro positivo: corrispettivamente in capo al primo , risiede ciò che designiamo come il malcontento sociale, il quale nelle sue spinte acefale e ingenuamente collaterali nei rispetti dello status quo, viene interpretato e sistematizzato dal secondo che ne perfeziona la diade, e ne orienta il moto: la bussola intellettuale. Il primo procura alle esigenze rivoluzionarie l’istanza motrice, la seconda per conseguenza l’istanza direzionale. Un’eventuale concomitanza storica non va fraintesa però con quella genetico-sociologica, dove a palmo di mano si discopre una gerarchia che riconosce lo stigma del prius solo e soltanto nelle amorfe spinte sociali, che malleate ed istruite dalla classe intellettuale, vengono incastrate in un regime ideologico e poste alla mercé, all’uso e consumo delle istanze di potere emergenti o comunque alternative. La nuova istanza di potere emergente è ciò in cui si sintetizza la dialettica ed anche ciò che ne consacra l’irreggimentazione, intesa come preservazione di quella struttura la cui distruzione si giustificava dapprincipio come ambizione originaria. La necessità tuttavia di una sinergia che galvanizza questo organismo polare risalta nell’ottica controfattuale: senza la propulsione del primo elemento, il secondo mai potrà vincere la sua fisiologica astenia, e solinga contemplerebbe la sua ipostasi nel segno di una stagnazione perpetua. Di contro, senza un senso di marcia adeguato, la propulsione sarebbe un impeto indefinito, incapace di accedere alla ratio della sua cinestesi. Nessun moto si realizza senza una contestuale direzione, nessuna direzione guadagna la linea al di là della sua puntualità senza un contestuale moto.
La natura ancipite della Rivoluzione sottende con ciò, fin dalla sua configurazione concettuale, una impurità che si attesta clandestinamente nelle acque basse della storia, e ne vanifica gli effetti in tutti gli angoli della sua fenomenologia. In ragion preliminare, è opportuno firmare il divorzio fra il concetto di rivoluzione e il concetto che odiernamente lo incapsula, depistando l’analisi. Rivoluzione e Progresso, partoriti dal medesimo ventre, e allattati alle medesime mammelle, sviluppati in vitro come coniugi coinvolti in un rapporto affiatato e implicazionale, sono al cospetto di una lente focale terminologie incompatibili, che sul registro semantico repellono il correlato. Nella misura in cui il pro-gressus è nella sua lettera il passo in avanti, nella sua configurazione una retta, la re-volutio è il rivolvere indietro, tracciando così il suo spostamento orbitale. Dobbiamo accettare la attuale semasiologia di questa voce come un segno che indizia la sua sovrastante spada di Damocle. Quando a Norimberga nel 1543 si affacciava al pubblico il De revolutionibus orbium caelestium, mettendo a battesimo quella che fu poi definita Rivoluzione scientifica, il povero e ignaro Copernico adoperava il termine nella sua accezione fisico-sistematica, pienamente adagiata sul significato di ritorno al principio, e ancora imprevidente rispetto all’accezione contaminata dalla nozione di progresso, iniettata in essa da una rilettura postuma in chiave socio- spirituale, che allegava in calce un’ideologia scaturita come prodotto effettuale, proprio dall’onda sollevata a partire dall’edizione dell’opera in questione. La contraddizione in termini è qui presto svelata: compressi in un unico punto, da un lato la rivoluzione intesa come movimento sistematico del ritorno al principio e dall’altro la rivoluzione intesa come movimento progrediente. Questo artificio retorico si sussumerà in un impianto culturale che replicherà la propria controversia nella metafisica della storia, ossia in quello spazio dove la storia dei termini viene ad interagire con i termini stessi della storia.
La rivoluzione, che nella sua duplice costituzione si articola sotto l’aspetto intellettuale e quello sociale, il malcontento e la bussola, la propulsione e la direzione, disegna le sue traiettorie e il suo movimento in un ritorno sempiterno che viene mistificato nel concetto, e pubblicato come progresso, ovvero come un fittizio passo avanti che in realtà si limita a spostarne in blocco la circolarità, ma non guadagna mai una dialettica emancipativa sulla propria geometria.
Alla luce di quanto detto, si può accreditare il sospetto che qui si è premesso sotto forma di postulato: “Le primizie di un movimento rivoluzionario concettualizzato sono per consuetudine il ritratto di una cornice semantica più elevata, che puntualmente ne inquadra il contenuto sub specie aeternis, e facendo astrazione dei suoi buoni propositi ne insterilisce gli obbiettivi con un latente colpo di mano, una elegante castrazione”. Si rende doveroso ordunque, prima ancora di qualsiasi rivoluzione, rivoluzionare la rivoluzione stessa, nella sua sfera metafisica, affinché in prima istanza ripensi la sua struttura profonda e non solo il rivestimento superficiale, e contestualmente sciolga la controversia che ne ammorba gli effetti. Qui non si asserisce una banale interpolazione vocabolaristica con la pretesa potenza di scrivere la storia, ma l’esigenza di delucidare un lemma che mai sceso a transizione con se stesso, ha scritto dall’alto della sua ipostasi un significato che sempre nella storia è stato strumento tematizzante e mai dimensione tematizzata, il che coincide a ragion veduta, con un acriticismo che riposa in un momento ancora più primigenio della capacità critica, giacché quest’ultima è debitrice con la lingua e procede nel solco scavato da un a-priori linguistico. Qui si ambisce molto più modestamente a deferire alla coscienza il significante, che nel suo significato ha dischiuso dei correlati reali di significatività. Dunque dal suono alla semantica, fino a pervenire all’assiologia. Con ciò ripensare il significativo significa ripensare il significato e ripensare il significato significa con esso ripensare il significante.
Su questa orma, occorre forse calcare dal vocabolario greco, il termine corrispettivo di επανάσταση (epanástasi), laddove se sottoposto ad un’operazione di destrutturazione morfo -semantica, ci regala uno scorcio concettuale che deve essere almeno proposto alla coscienza metafisica.
Il primo prefisso επα denota un movimento verticale, il secondo prefisso ανα designa la reiterazione, il radicale apporta il senso dello “stare”. Premettendo che la cultura linguistica greca adopera il sostantivo ανάσταση per indicare ciò che nelle nostre lingue di genetica latina evochiamo con il termine “resurrezione” o meglio ancora “rinascimento”, flessa qui in una forma che letteralmente tradurremmo con il ri-stare, al netto di questa istruttoria possiamo dischiudere proposizionalmente la seguente definizione da allegare alla voce in questione: l’ επανάσταση è uno stanziarsi ripetutamente su registri più eminenti, in un movimento che è di tipo rinascimentale.
Nella misura in cui è un rinascimento a tenere banco, anche gli elementi costitutivi si adegueranno in base alle esigenze. Non sarà più il malcontento ad innescare l’intellettualismo, non sarà più l’infimo istinto ad essere incanalato in una dottrina ricamata all’occorrenza, ma sarà l’intellettualismo ad ipertrofizzarsi espugnando l’altro polo, l’intellettualismo ad innescare il malcontento e a colonizzare la teleologia, cosicché da determinare entro se stesso i termini delle sue pulsioni, senza consegnarle sotto forma di legittimazione ai nuovi poteri aurorali, divaricando gli spazi entro cui accampare l’insoddisfazione dello status quo, e disseminando una discussione feconda, di rinascita. L’impianto gerarchico siffatto si ribalta, e la rivoluzione della rivoluzione giunge a compimento.
Alla concrezione prima in una metafisica della storia e poi in una storia di questa metafisica, vi si assurge solo laddove in un popolo impera a maggioranza una coscienza formata e non una formazione delle coscienza, tale da mantenere sempre aperta la dialettica fra bussola e malcontento, e senza mai vanificarla in una recrudescenza sintetica posta all’ombra di un altro, ennesimo vessillo, ma sempre impegnata in una tensione insolubile che la esorta ad una costante rinascita. Questo è propriamente l’epanástasi, questo è propriamente il rinascimento.
Discordia
Solo una spanna separava lo strale dallo scoccare la mezzanotte. Gli attimi defluivano come invasati da un demone irreversibile, e solo il nervosismo febbrile delle lancette sembrava dissimulare il mutismo eruttato dalla notte: nessuno alitava e la ritrosia sembrava quasi concertare con il roboante silenzio delle tenebre. Forse sopraffatte dalla prepotenza di Zefiro, delle foglie si congedano da una diramazione e migrano verso il nessun dove, affinché fruscino e cadano senza preavviso al di fuori dell’orizzonte degli eventi, anche esse intonate alla afasia dello sfondo.
Ma al rintocco improvviso del batacchio, la campana preannuncia uno spartito nuovo, discorde rispetto al costume, che disorienta l’udito e vibra come i tamburi spartani che marciarono verso le Termopili. Qualcuno ingiunge di consegnare le armi, di posare il verbo affilato; ma il verbo ribatte senza indugio: μολὼν λαβέ. E declama impavido le luci aurorali. Ci piace pensare che in una Versalleis qualunque, un odierno Luigi domanda con sufficienza al duca di Liancourt:
– “È una rivolta?”
– “No Sire”. Ribatte questo come da copione.
– “È una rivoluzione allora?” prontamente rincara, memore della storia e quasi compiaciuto della sua sagacia.
– “No Sire.” sentenzia l’altro: “É una EPANÁSTASI”.
L.P.G.