Un bambino sta giocando con le tessere di una scacchiera, sta costruendo mondi apparentemente reali dentro la sua mente, di cui lui è l’unico invincibile capo e governatore. Il fanciullo non ha uno scopo preciso, lo fa semplicemente e spontaneamente, senza neanche troppo estro creativo, continua ad immaginarsi dialoghi, avventure ed eventi che sorgono e muoiono all’interno della sua immaginazione. Fino a quando non decide di scaraventare tutto in terra, dando una temporanea tregua ai suoi giochi e alle sue attività ludiche della giornata per far regnare momentaneamente il caos nella sua amata stanza dei giochi. Tutte le realtà create in precedenza degenerano istantaneamente raggiungendo un apparente nulla, per poi venire ricostruite nel momento in cui la fantasia del bimbo inizia nuovamente a farsi sentire, e a reclamare la necessità di esternarsi e di costruire nuovi mondi di sogno. L’incosciente fanciullo incarna il pais paizon eracliteo: il bambino che gioca ad un gioco senza uno scopo, per il semplice gusto di giocarci, ma contemporaneamente il gioco è intessuto di razionalità e di intelletto. Ed è proprio un gioco quella tensione costante presente tra le due forze creatrici: l’apollineo e il dionisiaco, una continua creazione e distruzione per poi creare ancora nuove “parvenze dei mondi del sogno”. L’inconsapevole fanciullo che gioca diventa il frutto di una creazione senza fine ma, per fare questo, il bambino deve continuare a smontare e distruggere le pedine che prima muoveva ignaro nell’ambiente. Solo nel momento in cui costruisce e poi annienta, il bimbo può sentirsi potente e legato, inconsapevolmente, alle sue capacità e ai suoi valori.
La dimensione del gioco sembra essere importante anche nei secoli successivi: Nietzsche su di essa costruisce l’idea fondamentale del dionisiaco. Il filosofo Eugen Fink sostiene infatti che quest’ultimo concetto nietzscheano sia una nuova concezione dell’essere che si rifà proprio ad Eraclito e al suo tema del iocus. Ed è e sarà proprio questo problematico fanciullo a manifestare il dionisiaco, il sacro “dire sì alla vita”. In Ecce Homo del 1888 scrive: “Non conosco altro modo di trattare i grandi compiti che non sia il gioco”. Dioniso e tutto ciò che incarna è questo gioco, e secondo Nietzsche, è il solo a poterci istruire in un simile istinto.
Apollo sin dai tempi della mitologia greca incarna la luce, il chiarore del sole e la giovinezza, rappresenta l’archegetes, ossia colui che guida la fondazione. Al suo opposto, c’è il dio dell’ebbrezza, Bacco per i romani, Dioniso per “la razza umana meglio dotata, la più bella, la più giustamente invidiata, la più capace di sedurci all’amore della vita: i Greci”; così dichiara Nietzsche nelle prime pagine de La Nascita della Tragedia. L’apollineo e il dionisiaco sono già da sempre ambivalenti: il primo è simbolo della calma magnificenza delle divinità, il secondo incarna l’origine del pessimismo greco non decadente; insieme rappresentano un doppel wesen, un uno originario già da sempre scisso, due rami appartenenti allo stesso albero. È un erma bifronte capace di esistere solo in simbiosi con il suo opposto, un rapporto simbiotico e deleterio per entrambi, una continua distruzione per dare ancor di più adito al panta rei eracliteo; ma contemporaneamente si ha la presentazione di un oltre, visibile solo soverchiando il dato fenomenico, la realtà oggettivamente tale. La tregua tra essi è assente, si ha piuttosto un continuo movimento di forze antagoniste ma simbiotiche. Così anche Amore e Contesa (o Neikos) nell’universo empedocleo coesistono e portano ad esistenza il mondo: la prima forza lega, congiunge e avvicina, la seconda separa, divide e distrugge. Quando la forza di Amore è così potente da soverchiare il resto, si raggiunge temporaneamente lo Sfero: così secondo Empedocle l’universo arriva momentaneamente alla sua completezza e perfezione, si raggiunge un perfetto equilibrio che è però destinato a fallire nel corso del tempo.
“Simile ovunque a se stesso ed ovunque indeterminato, sfero rotondo che gode la sua solitudine piena.”
Ma poi l’incessante movimento riprende, e lo Sfero precedentemente raggiunto torna ad essere un indelebile ricordo di tempi passati, ora la forza dominante potrebbe essere Contesa: la forza centrifuga e disgregante che conduce all’annientamento del perfetto equilibrio chiamato Sfero e una conseguente creazione del cosmo e dell’intero universo.
E invece il pessimismo non decadente? Può esistere una trasvalutazione dei valori tale da rendere il pessimismo una forza? È una predilezione intellettuale per il tragico, il dramma e il non-senso della vita, è un modus pensandi che non conduce però ad un ottimismo socratico in cui nessuno compie il male volontariamente ma solo per mancanza di conoscenza, piuttosto si raggiunge un vero e proprio aufhebung dell’ottimismo: la positività si supera totalmente ma senza eliminarla, la si modifica e la si rivoluziona. È quel fenomeno posseduto dagli invasati dionisiaci, da chi si è sopraffatto dall’ebbrezza e dalla frenesia orgiastica. Ebbene, qui i dolori suscitano piacere, il “giubilo strappa al petto voci angosciate”, dal sommo della gioia risuonano grida di terrore. Qui echeggiano rumorosamente le tre streghe del Macbeth di Shakespeare che perturbano e sconvolgono i passanti acclamando: “fair is foul, and foul is fair”. Ebbene, come si tende a giustificare una simile affermazione? È un capovolgimento, un’azione rivoluzionaria che mira a decostruire tutte le certezze precedenti. Dunque, proprio così, in questo modo, si potrà effettivamente dichiarare che “il brutto è bello, il bello è brutto”.
Anche le modalità di guerra dell’antica Grecia potrebbero illuminare il percorso che si è qui precedentemente intrapreso. Durante il periodo delle gare olimpiche si aveva una temporanea sospensione di tutte le ostilità, di ogni guerra e ogni scontro che era presente all’interno del Paese. Si raggiungeva dunque una vera e propria tregua in cui si donava più importanza alle feste e ai momenti di gioia e vitalità. Questo arresto momentaneo veniva chiamato ekecheiría che letteralmente significa proprio “mani ferme”.
Tra l’azione e l’inazione si può dunque provare a danzarci su, cercando, in fin dei conti, un nuovo e temporaneo equilibrio.