Le prime testimonianze di automi, risalgono agli scritti dell’Iliade, nella quale Omero riporta la visita di Teti presso la dimora del Dio Efesto. Qui la ninfa scorge delle strane figure umanoidi che sono al completo servizio del loro signore.
“… ancelle d’oro
simili in tutto a giovinette vive venivan sorreggendo il lor signore; ché vivo senso chiudon esse in petto, e hanno forza e favella, e in bei lavori instrutte son dagl’immortali Dei.” [Iliade, XVIII]
Nei versi, appare chiaro come il Dio greco del fuoco sia il primo “ingegnere” a costruire robot umanoidi. Le ancelle d’oro, non solo somigliano a giovani ragazze, che possiedono la capacità di comprendere quello che gli viene detto, ma hanno anche “forza e favella”, cioè forza e parola, mostrando una capacità d’interazione che sembra improbabile essere reale ai tempi degli antichi greci. Ma se la realtà dietro al mito resta un mistero, non possiamo di certo dire lo stesso della nostra realtà.
Il mondo come lo conosciamo oggi è stato quasi del tutto “automatizzato”.
Se ci fermiamo a pensare alla nostra giornata tipo, ci accorgiamo che interagiamo con gli automi almeno due o tre volte al giorno. Un esempio comune sono i distributori automatici che, a pensarci bene, non hanno l’aspetto di un robot. Eppure lo sono. Specificamente si chiamano “macchine a stati finiti”, ovvero danno una risposta ben precisa a seconda dell’input (nel nostro caso le nostre monetine) che gli diamo.
Dando uno sguardo più attento, ci accorgiamo che gli automi stanno prendendo sempre di più il posto dell’umano. Il motivo di questo, è semplice: un robot esegue il lavoro affidatogli in maniera più efficiente dell’uomo, garantendo una standardizzazione del prodotto finale ed un rendimento sempre massimo, in quanto non risente della stanchezza fisica.
Questo approccio pu essere utile e giusto applicato al mondo dell’industria, dove l’operaio è costretto ad effettuare un lavoro monotono e alienante, ma cosa ne pensiamo nel momento in cui si passa al mondo della medicina?
Ci sono diversi tipi di robot usati in medicina, intesi come intero complesso o come parte di esso. Molto interessanti sono quelli che trovano il loro scopo nella protesica, un chiaro esempio di come l’intelligenza di un microprocessore possa essere messa al completo servizio dell’umano e non diventarne padrone.
Una protesi, in effetti, altro non è, come ogni altro robot, che un ammasso di ferraglia, circuiti elettrici e microprocessori che, se ben programmati ed assemblati, possono andare a sostituire, seppur in maniera imperfetta, quei distretti anatomici, quali ad esempio mani o gambe, che hanno subito traumi, malformazioni o aplasia.
Altri tipi di robot medici sono i robot chirurgici, tanto precisi da permettere al medico di operare per via laparoscopica (senza necessità di aprire il paziente) attraverso cavi in fibra ottica o realtà virtuali.
E fin qui tutto bene, ma cosa succede quando il medico in carne ed ossa viene soppiantato da un freddo robot? È più importante la precisone o il rapporto umano con il paziente?
Si apre, a questo proposito, un grande dibattito nel mondo dei luminari, che trova sostenitori per entrambe le fazioni.
I robot hanno un’intelligenza superiore alla nostra, sono veloci ad apprendere nuove procedure e precisi nello svolgere interventi chirurgici anche in distretti anatomici piccoli e difficili da raggiungere. Di contro, però, sono incapaci di allacciare un rapporto empatico e di fiducia con il paziente.
Per i sostenitori del Dr. Robot le motivazioni sono valide del tutto razionali: il robot si aggiorna velocemente, ricorda informazioni della mole di un’enciclopedia e non è influenzato da convinzioni culturali e/o religiose. Inoltre sono economicamente più vantaggiosi, la formazione di un robot è meno costosa rispetto a quella di uno specializzando.
Il problema dell’empatia viene risolto in maniera spicciola, in quanto il coinvolgimento emotivo pu risultare svantaggioso e, in alcuni casi, compromettere la riuscita della terapia. Per giunta, il distacco emotivo sembra essere un buon modo per garantire che il paziente si trovi perfettamente a proprio agio nel fornire al medico la sua anamnesi.
Con questa prospettiva non è difficile immaginare un mondo in cui i medici in carne ed ossa risulteranno semplici assistenti e non assistiti dei robot.
Per gli altri, invece, il problema principale si sviluppa proprio attorno alla mancanza di empatia tra robot e paziente. Perché, se è vero che siamo un insieme complesso di carne ed emozioni, allora la malattia non è un insieme semplice di sintomi.
Secondo questa logica, nella cura di un paziente, è necessario avere una conoscenza completa della sua malattia, anche in base alle sue abitudini di vita. Per quanto potenti, non esiste un algoritmo che sia in grado di comprendere le emozioni, i messaggi che manda il corpo, i valori in cui crede e la condizione sociale del paziente stesso. La terapia, quindi, non pu essere basata sulla sola diagnosi, ma deve essere modulata a seconda delle preferenze e reazioni del paziente.
Il concetto di base è che, i sintomi possono essere uguali, lo sviluppo della malattia pu essere diverso in persone diverse. La persona malata mostra preoccupazione non solo per se stesso ma anche per i suoi cari, che a loro volta sono preoccupati per lui.
La salute è qualcosa che comprende anche le esperienze ed gli stati d’animo individuali, non ci si può limitare a ristabilire, in maniera automatica, il benessere di singole parti del corpo.
I robot devono servire l’uomo, come le ancelle dorate servivano il dio Efesto e non allontanarlo ancora di più da quell’umanità che sembra, oramai, solo un miraggio.
Martina Canonico