Daniel Dennett va dall’eterofenomenologo

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1. Un mondo possibile: La Fama del cervello di Dennett

La finestra masticava il sole del primo mattino e lo risputava in una camera ancora vestita con il colore della notte. Dan, affusolato nel sonno imperlato nell’inerzia dei suoi ultimi, pre-onirici gargarismi intellettuali, non schiude mai gli occhi prima che la stanza si schiuda per intero al giallo del sole.

I suoi stati funzionali sono scanditi elveticamente dai nuclei soprachiasmatici del suo diancefalo, che sono l’unica lancetta a cui si attiene. Non ama opinare ciò che il cervello suggerisce; Non che ne abbia bisogno, dato la conclamata fama che ha conquistato il suo presso la comunità di scienziati e intellettuali, presso l’opinione pubblica, e anche presso i suoi avversari filosofici, al cui riecheggio del nome sono come avvolti da un cereo pallore, e faticano ad alimentare la fiamma degli eccepimenti sensati. Se la fama del suo cervello non si lascia confutare anche da quei molti detrattori ideologizzati, perché lui dovrebbe confutare la fama del suo cervello? O peggio ancora, la fama nel suo cervello, come prese a chiamare la sua invecchiata “teoria delle molteplici versioni”?

Filosofo, logico, esperto di neuroscienze e di coscienza, polimatetico di rara occorrenza, pare aver trainato come il nocchiero averroistico la nave della riflessione occidentale verso rotte sin lì inesplorate, o forse esplorate ai tempi dell’astrolabio. Non restano che gli spiriti magni a smuovere il desiderio dei giovani fanciulli, quando sollecitati dalla domanda dal sapore un po’ lockiano “In quale uomo della storia vorresti che la tua coscienza si trasferisse?”, sono fibrillati dalla loro irrequieta fantasia ad orientarsi verso un qualche profilo che il gioco pare richiamare nel repertorio, nel pantheon degli eccelsi. Se i giovani di qualche generazione addietro avrebbero indicato Socrate, Galileo, Immanuel Kant, i giovani di qualche generazione postuma avrebbero avuto sicuramente a dire Daniel Dennett, tale è stata la vigoria della sua rivoluzione copernicana; avrebbero, giacché probabilmente non potranno: fra qualche generazione il termine coscienza, diverrà un pezzo raro conservato nei vocabolari museo, e il gioco avrà assunto terminologie nuove, del tipo software, o pacchetto di informazioni mnestiche, o memoria di lavoro globale o qualcosa che mutui per tendenza calcificata dal lessico informatico, tale da rendere il gioco anodino e sempre meno praticato.

Ciò accade già in parte nel mondo possibile che si sta descrivendo e all’interno del quale si invita il lettore, dove il cervello del prof. Dennett ha sbaragliato le opposizioni e scodellato sul tavolo della discussione una serie di tesi insormontabili, che hanno macinato ampi proseliti e riscosso nutrite ed entusiaste adesioni, tale da scalare la cima che spetta come da prassi allo stendardo di ogni vincitore di una qualsivoglia logomachia, ad ammonire ogni sconfitto che l’egemonia culturale è stata stabilita: il dibattito ha un pensiero alfa.

In un altro mondo possibile agognato dai misticismi fanatici, dai misteriani prezzolati, magari si potrebbero scavare solchi diversi, dove gli elefanti svolazzano felici e pesci fanno accattonaggio, e magari le anime staccate dal corpo vanno da Castore e Polluce secondo gli stati dettati dal ritmo veglia sonno: ma non è questo il nostro mondo possibile, ne tanto meno avremmo lo spazio e il beneficio di prenderlo in esame. Nessun elefante aligero nel nostro mondo; solo scampoli illanguiditi di pipistrelli che pensano di sfuggire all’oggettività della scienza e lettere incartapecorite dalla Kirghisia del mondo zombico.

2. La cena indigesta dei soggetti folkloristici

Temp’era il principio del mattino. Lo specchio inquadrato in motivi roccocheggianti, riluceva il tarsio del sole e tempestava la stanza di… fotoni. Questi eccitando i suoi ricettori retinici, – giacché stimolano gli assoni delle cellule gangliari della retina che percorrendo il tratto retinicoipotalamico vanno a far sinapsi con il nucleo soprachiasmatico dell’ipotalamo di Dennett -, gli fanno finalmente suonare la sveglia. Si rigettò nel mondo particolarmente conturbato, forse a cagione di qualche suggestione onirica riverberata dalla intensità della sua fase REM e dai capricci dell’attività della sua corteccia extrastriata. Aveva sognato quella sventurata di Mary che si esibiva in un teatro cartesiano farneticando di essere sorpresa di veder gente così colorata. Una notte insomma, di sobbalzi cardiaci. Sarà stata la cena indigesta da cui si trovò reduce la sera prima, in cui fra le altre cose, tra una gozzoviglia e una centillinata di vino vermiglio, si levarono i pensieri nella dolce ebrezza del confilosofare impavido, quell’esercizio di dialettica che meglio riesce quando il convivio dispone l’assise di cuori curiosi, che muovono senza posa alla disperata, ma voluttuosa ricerca della verità assoluta. Quello, si può ben dire, era proprio il caso.

Un’adunata che si pregiava oltre che di Dan anche di Thomas e di David era in effetti una di quelle circostanze in cui la prelibatezza gastronomica delle portate diviene l’oltre-frontiera di una linea sagittale che spacca il mondo in res cogitans e res extensa, dove la seconda altro non è che tavola imbandita che trampola la prima nell’iperuranio. Il tema su cui danzavano le elucubrazioni era quella tanto sospirata conoscenza del sé. Per quanto si sforzasse, Dennett non riusciva a digerire i resoconti positivi esposti dagli altri due commensali costruiti sulla propria autoesperienza, che avevano la pretesa di esaurire l’argomento, o di rivendicare un indicibile fenomenico. L’idea che il resoconto edificato sull’autoesperienza soggettiva della propria persona venisse assunto quale verità apodittica era ormai un idea trapassata, acclamata nel giurassico della conoscenza. Il fisima che aveva incancrenito le ricerche e che fortunatamente si erano disarenate dalle secche della coscienza privata, per cui sussisterebbero presunti contenuti fenomenici che sfuggono a qualsiasi comprensione da parte di terzi. Era ormai, un idea estinta, macerata. Non riusciva a spiegarsi come intellettuali di quel risma ancora si baloccassero in questo tentativo, viziato da un dizionario alchimistico, e cumulato ingenuamente nella jāhiliyya pre-scientifica. Si risolse così nel censurare con la parola “Teatro Cartesiano” o “folk psicologia” ogni contenuto che valicasse la linea di frontiera tracciata dalle nuove verità scientifiche, proprio come alle adunate del Circolo di Vienna prontamente si grammofonava la parola “Metafisica” ad ogni eccesso di entusiasmo che si avventurasse improvvidamente al di là della fisica: protuberanze smodate, nulla più! Da estirpare in via definitiva.

Si rifiutò inoltre di condividere una qualsivoglia tramatura del proprio fantomatico sé , aggrappato alle istanze per cui locus primus) nella mente nulla del sé è, e anche se fosse, locus secundus) non sarebbe conoscibile dal sé, e anche se fosse conoscibile dal sé locus tertius) sarebbe una conoscenza tutta ricami e narrazione. Dunque se avesse ceduto a questo gioco, avrebbe fatto nient’altro che un resoconto ricamato di una narrazione di una non conoscenza di nulla di esistente. Avrebbe a tali condizioni, preferito deliziarsi la bocca con una arancina siciliana, magari prodotta a Leontini (perché nel magari ottativo tutto potrebbe essere).

Non era credibile che nell’epoca dominata delle neuroscienze, ci fosse chi ancora si adagiasse al non sequitur leibniziano del celebre esperimento mentale della pompa ad intuizione, ormai così irreversibilmente confutato, per cui, tanto per rammentarlo, se immaginassimo una macchina capace di percepire e se potessimo ingrandirla dimodocché divenga grande quanto un mulino, entrando non riusciremmo ad osservare nulla oltre ai marchingegni che si spingono e si retrospingono, insufficienti per spiegare l’atto percettivo, che deve con ciò essere giustificato attraverso una sostanza semplice, e non nel composto meccanico. Era evidente che Leibniz ardiva fondare una tesi metafisica su una tesi epistemica, cadenzando il ragionamento con il condizionale “ se non osserviamo la percezione dei marchingegni, allora la percezione è nella sostanza semplice; non riusciamo ad osservare la percezione nei marchingegni, dunque la percezione è nella sostanza semplice”, che riscrive una previa introduzione disgiuntiva totalmente arbitraria, “O osserviamo la percezione nei marchingegni o la percezione è nella sostanza semplice”. Ad oggi fortunatamente è scritto dappertutto ed è stato ampiamente appurato: gli Organismi sono macchine biologiche. I più scettici dovrebbero leggere l’articolo del Dott. Massalìa e ribattere il martello sul chiodo delle evidenze.

Thomas e David tuttavia stazionavano proprio inconcussi nelle loro credenze. Nonostante le argomentazioni coriacee il loro impeto reazionario si alimentava di intuizioni ormai sterilizzate. Era divenuta ideologia. L’ideologia folkloristica del soggetto sostenuta da soggetti carburati dal folklore. Non era più in effetti una dialettica di persuasione, – come il nostro amico Dan ebbe molte volte a pensare, traendone ad ogni coltura empirica sempre nuovi suffragi, – quanto piuttosto di conversione ideologica. Prima di congedarsi dal sudato convivio, Dennett, gli ripromise che alla prossima riaggregata, avrebbe portato con sé gli esiti di uno studio su sé stesso, che sarebbe stato commissionato all’unica figura autorizzata a motteggiare scientificamente sulla soggettività: l’eterofenomenologo.

Avrebbero poi confrontato i risultati con le ispezioni autofenomenologiche dei due reazionari per bollare in via definitiva il mito dello spettro depositario di una privativa su se stesso.

Rincasò deprecando questa insensata partigianeria che apologizzava credenze ormai tramontate, risoluto che il giorno incombente lo avrebbe accompagnato dall’eterofenomenologo per archiviare tale faccenda e bastonare una staffilata di belle lezioni al fanatismo dei suoi amici.

La notte, fu quella tribolata dei sobbalzi cardiaci a cui si accennava sopra: forse, ora che si coglie il contenuto di questa retrospettiva, sarà stata forse l’arancina siciliana!

3. Dall’eterofenomenologo: Magister Franciscus e Daniel Dennett

Magister F: Benvenuto Dan. Come stai? Sono lusingato di vederti.

Dennett: Magister Franciscus! Sono lieto di rivederti. Ti trovo più incanutito dall’ultima volta, e sei divenuto quasi più innevato di me. Ma noi sappiamo quanto la saggezza del bianco rifletta meglio la venustà della luce. Come diceva il vostro conterraneo Ficino: “Io dirò te esser ignorante se la bellezza altro che luce esser credessi”. Non concordi, tu che di formazione sei un umanista? A proposito… Ma sei tu l’eterofenomenologo? Non facevi il latinista, tu? Come diamine ti sei trovato a fare l’eterofenomenologo?

Magister F: Hai ragione Dan. Non è certo colpa mia. É l’autore dell’articolo, accidenti, che mi chiama in causa ogni volta che c’è da perlustrare le implicanze di un tema, mandandomi al fronte mentre lui si dissolve nelle retrovie. Mi panneggia con i ruoli più improbabili. Detto fra noi penso che lui sia un po’ carestoso di contenuti, e in virtù di ciò ripara i suoi silenzi sempre dietro i miei scampanellii elucubrativi.

Dennett: Ti capisco. Questa volta come vedi ha chiamato in causa anche me. Solo che non ho ben capito se sono la sua freccia o il suo bersaglio. Maah! Chi lo può sapere…

Magister F: Su Dan, non ci fasciamo in questioni esistenziali! L’esistenza è una stilla piovuta dal cielo e dissolta in oceano, cantavano i poeti. Procediamo piuttosto con lo studio! Le procedure le conosci già suppongo, dato che le hai elaborate tu ed hanno registrato nel nostro spaccato di mondo un ampio consenso, un consenso tale da convertire anche me che ero un misteriano blasonato, un predicatore del mistero della coscienza.

Dennett: Come è ovvio che sia. La magia della coscienza è ormai un oracolo esaurito. L’eterofenomenologia è lo studio del soggetto con approccio in terza persona, attenuta ad un rigido protocollo di indagine, il quale muove dalla previa ed attenta registrazione dei dati grezzi che il cervello del soggetto ci fornisce, e in generale si rubrica al dettaglio qualsiasi evento fisico, elettrico, chimico, ormonale. Alcuni dei segnali acustici emessi dal soggetto vengono assunti quali veicolo di comunicazione, al netto della quale si procede con la di loro trascrizione e con quel conseguente riconoscimento che gli aggiudica l’attestato di atto linguistico, quale tabernacolo di un contenuto di credenza. Va da sé la necessita di adottare un atteggiamento intenzionale, adozione che ci garantisce la licenza di trattare il soggetto quale depositario di un sistema di credenza. La credenza è il cavallo di troia che ci porta dritto nelle esperienze coscienti accessibili al soggetto, attraversando, in forza della sua descrizione, quella che è la sua prospettiva, dimodocché nell’istruttoria nulla dell’esperienza diretta del soggetto resti celato. Ciò che al soggetto sfugge, tutti quegli eventi subliminali, che passano sotto la sua soglia di coscienza sono prontamente raccolti dall’eterofenomenologo, che potrà così raffrontare il registro di ciò che sembra al soggetto in questione, su cui detiene un autorità assoluta, e il registro di ciò che realmente accade nel soggetto, su cui egli è completamente esautorato. Così impostato, il metodo eterofenomenologico non lascia fuori dal suo studio nessun residuo fenomenico, o sedicente tale, che possa garantire con il suo contenuto qualitativo un accesso privilegiato al soggetto! Non sussiste alcun quale ab sconditus alla scienza oggettiva. Nessun “cosa si prova ad essere…” che non si possa datificare e maneggiare scientificamente. L’eterofenomenologia si sobbarcherà inoltre il delizioso ufficio di indagare la possibile slabbratura fra credenza del soggetto e la rispettiva verità scientifica, industriandosi in una ricognizione tesa a rendere perspicua l’eziologia ombreggiata ad ogni credenza.

Magister F: Eccellente delucidazione. Mi pregio di aver sbobinato la mia attuale professione dal nastro a cui va intestata la paternità. Ormai nel nostro mondo possibile, questi precetti sono come il verbo che si fa carne; qualcosa di cucito nel tessuto della nostra cultura scientifica. A te la gloria e il merito di aver piantato i segnavia verso la definitiva oggettivazione del soggetto. Detto questo, vogliamo cominciare? Ora ti inviterò a sederti, e dopo il tuo accomodamento ti applicherò la strumentazione per registrare i mutamenti fisiologici e l’attività elettrica del tuo sistema nervoso.

Registreremo tutti i tuoi proferimenti, e assumeremo che tu possa essere un soggetto depositario di credenze dimodocché si possa isolare un testo di tali credenze e successivamente valutarlo. Ovviamente, non introdurremo alcun distinguo fra le tipologie di coscienze, essendo stato, tale distinguo, già ampiamente estirpato dalle implicazioni della sua pregevole teoria, che lo hanno reso pari alla merce avariata. Intendo il binomio fra coscienza d’accesso/ coscienza fenomenica proposta da Ned Block, con il relativo pregiudizio che gli stati qualitativi dimorassero esclusivamente nel dominio inaccessibile al controllo del pensiero, mentre il dominio accessibile fosse una fredda fabbrica di enunciati e di giudizi. Come lei ha ben esposto, tolta la coscienza d’accesso resterebbe soltanto una sorta di in-coscienza fenomenica, che a nulla riuscirebbe utile a qualsivoglia ricerca. Noi dunque qui, nel nostro centro eterofenomenologico, sulla scorta delle sue riflessioni, nella misura in cui una coscienza fenomenica o è accessibile o non è coscienza, abbiamo asseverato le conclusioni che la coscienza d’accesso o è fenomenica o non accede a quella fenomenica, ossia che se ogni sensazione cosciente è coscientemente accessibile e dunque anche proposizionale , anche ogni proposizione esplicativa è sensazionale, giacché non si dà la possibilità che una proposizione sia veicolo di sensazioni, senza la possibilità che una sensazione venga veicolata da una proposizione. Dunque lei proceda con l’enucleare il sistema di credenze inerente alla sua esperienza cosciente in generale, e noi provvederemo a monitorare il suo sistema limbico per comprendere le emozioni, gli eventi, che si susseguono nel suo cervello e che accompagnano i suoi atti linguistici, e poi successivamente passeremo agli enunciati le cui credenze contenute descrivono le sue singole emozioni.

Dennett: Va bene. Posso cominciare allora?

Magister F: Cominci pure.

Dennett:

– Credo che per ogni x dove x è un enunciato di eterofenomenologia, e non è solo una narrazione (equivalente a dire se x è solo una narrazione allora x non è un enunciato di eterofenomenologia), x comprenda oggettivamente il soggetto; i resoconti dell’esperienza in prima persona sono solo narrazioni; dunque: i resoconti dell’esperienza in prima persona non sono eterofenomenologia e non comprendono il soggetto.

– Definisco eterofenomenologia una teoria della coscienza che renda giustizia a tali narrazioni, le quali essendo il prodotto dell’accesso in prima persona del soggetto alla sua esperienza ed essendo anche proposizionali, definite la proposizione come accessibili in maniera intersoggettiva, rendono accessibile alla terza persona l’esperienza così come sembra al soggetto in prima persona; reso giustizia a tali narrazioni, le si confronta con le verità scientifiche e si spiegano gli eventuali punti di sdrucitura

Magister F: Eccellente. Il tuo sistema di credenza circa il metodo da seguire sembra perfettamente coincidente con la verità dell’eterofenomenologia, che comprende il soggetto rapportando rilievi narrativi e scientifici; non si rileva alcuna escrescenza che sia solo narrazione, giacché tutto coincide con il suo rispettivo scientifico, ossia con gli asserti che attestano scientificità del metodo eterofenomenologico, e la sua possibilità di cogliere oggettivamente il soggetto.

Dennett: Era lapalissiano visto che la scientificità dell’eterofenomenologia si è strutturata a partire dalle mie ipotesi.

Magister F: Giusto, giusto… Ora ci tocca proce.. aspetta un attimo…

Dennett: Cosa c’è?

Magister F: Come facciamo a stabilire la giustezza della tua ipotesi se questa è validata sulla tua tesi, e viceversa la tua tesi è validata sulla tua ipotesi?

Dennett: Stai insinuando un diallele, per caso? Il diallele mio caro, pertiene alle narrazioni, e non si dà per le verità scientifiche. La mia tesi è una verità scientifica in quanto opera in terza persona e può produrre criteri oggettivi di validazione esterni che la suffragano. Ossia: date le condizioni del metodo in terza persona si deve arrivare a comprendere il soggetto. Giacché a partire da quelle condizioni si può realmente dimostrare la comprensione del soggetto, la dimostrazione non richiede l’appoggio sull’ipotesi, ma sono empiricamente ravvisabili.

Magister F: Dunque possiamo definire una classe di narrazioni come un rapporto fra due enunciati dove l’uno si sorregge all’altro e viceversa, nel suo giustificarsi; del tipo: Io credo che se tutto è narrazione la coscienza resti un mistero, e poiché la coscienza è un mistero, tutto è narrazione.

Dennett: Esattamente. Cosa centra con la mia tesi, la cui dimostrazione si sorregge su solide basi scientifiche?

Magister F: Se effettivamente questa venisse supportata da altri elementi rispetto alla tua ipotesi, non sarebbe solo una narrazione, in caso contrario ci troveremo costretti a ravvederci, in quanto ciò sbancherebbe il terrapieno su cui giudichiamo la nostra altezza. Penso sia necessario, nonché doveroso, operare una ricognizione.

Dennett: Perdona Magister Franciscus. Ma l’eterofenomenologia non prevede l’ingerenza nel sistema di credenze del soggetto. Questa affondo inficerebbe l’ortoprassi e la burocrazia eterofenomenologica.

Magister F: Tu hai ragione, ma capisci bene che al netto di tali perplessità, senza una previa discussione che accerti la validità della pratica, non potremmo definire non velleitario il nostro sforzo. É necessario una ricognizione che accerti la validità, in congruenza con ciò che si dichiara siano le coordinate di lancio di tale validità. Se la possibilità di accreditare la tesi si identifica nella dimostrazione empirica, è necessario scovare come questa dimostrazione si renda possibile, e come spezzi una presunta circolarità. Dunque ricapitoliamo; dovremo ragionare su i seguenti enunciati.

1) per ogni x dove x è un enunciato di eterofenomenologia, x comprende oggettivamente il soggetto;

2) se x è solo una narrazione allora x non è un enunciato di eterofenomenologia

3) Tutti i diallele sono narrazioni, e non hanno altri criteri oggettivi di validazione esterni che li dimostrino.

4) L’eterofenomenologia, essendo un metodo che approccia il soggetto in terza persona, può produrre criteri oggettivi di validazione che lo dimostrano.

Dati questi quattro enunciati, possiamo dire che il 3 e il 4 rendono grazia al 2, in quanto attestano la non coincidenza fra enunciati eterofenomenologici e narrazioni, e il 1 si dà come conseguenza del 4.

Dennett: Pare sia giusto.

Magister F: Bisogna ordunque capire se il 4 presenti una possibilità ed un’autorizzazione non derivata dall’1. Se così fosse sarebbe calamitoso, e avremmo vanificato i nostri sforzi, giacché ahimè, anche l’eterofenomenologia non scamperebbe all’infausta categoria delle narrazioni.

Dennett: Ma non si fa altro che ripresentare il problema di sempre, sotto mentite spoglie, reintroducendo qualia, indicibili, residui fenomenici, ed altre entità astratte ormai del tutto poste all’indice.

Magister F: Ti sbagli, non è sull’indicibilità di una esperienza cosciente che intendo focalizzarmi; ma sull’incapibilità di essa. É chiaro che la partita non si gioca sul rapporto soggetto-linguaggio, ma sul rapporto linguaggio-soggetto, ossia non sul modo con cui il soggetto entra nel linguaggio, ma sul modo con cui il linguaggio entra nel soggetto.

Dennett: Spiegati meglio. L’unica incapibilità per ora io la rintraccio nella tua questione…

Magister F: Qui risiede parte del punto. Affinché il punto di vista del soggetto sia accessibile oggettivamente è necessario un approccio in terza persona. La domanda è: è possibile approcciarsi ad un altro soggetto in terza persona? Ancora, se attraverso il linguaggio noi possiamo oggettivare il soggetto, affinché esso resti nell’oggetto non è per caso necessario che questo oggetto tale si preservi, senza che corra il rischio che venga di nuovo soggettivato dal soggetto interpretante?

Dennett: Ma è un dubbio fuori commercio. La scienza nei suoi studi si serve da sempre della prospettiva in terza persona, non solo nei confronti degli oggetti, ma anche nei confronti dei soggetti, praticando rigorosamente l’agnosticismo. Ho già avuto modo di spiegare questa credenziale.

Magister F: Appunto, ma non si può pensare che oggettivare l’oggetto e il soggetto, sia un processo che si instrada su un medesimo sentiero. L’oggetto è un soggetto muto e quando viene interpellato non parla; il soggetto è un oggetto che parla. Dunque bisognerà mettere a tema la prassi comunicativa. Nella prassi comunicativa gli attori sono due: il mittente e il ricevente, rispettivamente prima e seconda persona. Se le prime due persone sono condizione necessaria e sufficiente alla prassi comunicativa, può essere ammesso in tale rimbalzo un terzo componente? Può, anzi deve, a patto che sia un riferimento, e non colui a cui tale riferimento dovrà essere riferito, che è sempre in quanto ricevente un Tu. Se nel parco vicino al duomo Marco, Luca e GianGirolamo discutono di filosofia aristotelica, tre sono le persone che compartecipano alla comunicazione, ma due soli sono gli attori: quando Marco parla e gli altri due ascoltano, per Marco che si rivolge agli altri due, egli è un Io e gli altri due sono due Tu (Voi), mentre per Luca e GianGirolamo ciascuno è un Io per sé e Marco un Tu; se Luca si rivolge a GianGirolamo dicendo: “Marco ha detto una castroneria sull’Etica a Nicomaco” per Luca, Luca stesso è un Io che si rivolge a un Tu che è GianGirolamo, indicando un Lui che è Marco; per GianGirolamo egli è un Io e Luca un Tu, con cui condivide lo stesso Lui che è Marco. E per Marco?

E ovvio che se Marco non sente il sussurro che Luca ha intimato a GianGirolamo, resterà fuori dal gioco comunicativo, ma se percepisce il commento esclamerà senz’altro: “Ce l’hai con me?” e diventerà un ricevente, un Io per sé e un Tu per gli altri.

Stesso copione si recita con la comunicazione scritta: Il lettore di questo articolo di cui noi siamo sventuratamente i protagonisti sarà per lo scrivente un Lui, sintantoché l’iscrizione resta inerte e assopita in se stessa. Ora nella sua lettura, il lettore coraggioso che è arrivato sin qui, e non si è scoraggiato all’altezza della tua indigestione di arancine, diverrà un ricevente e sarà per lo scrivente un Tu. Potrebbe darsi il caso che il lettore impavido dissenta perentoriamente con i nostri filosofemi, e denunci tali riserve a Fracastoro, suo amico umanista, che curioso leggerà l’articolo e converrà ridiscuterlo con l’amico; rispettivamente: ogni lettore che si approccia all’articolo, ad un oggetto che parla, si approccia ad un Tu preciso, che non potremmo dire essere i nostri personaggi di M. Franciscus o Daniel Dennett, bensì solo il produttore reale delle parole, nei suoi confronti saranno un Io, così come l’autore si sente comunicativamente un Io che spara alla cieca verso molteplici Tu; nel momento del commento all’articolo, l’autore delle iscrizioni che lo compongono, esce fuori circuito e non è più un attore della comunicazione, ma oggetto della comunicazione: un lui neutro; Dunque in ogni caso, penso che se un approccio richieda una prassi comunicativa, non si può dare nessuna terza persona, che non sia un Io o un Tu, e mai un lui.

Dennett: Ed io che volevo sconfessare l’Io del teatro cartesiano, devo fare i conti un altro Io che recita in un altro teatro? E tu quindi vorresti dire che nella prassi comunicativa fra i soggetti vige un regime di incapibilità? Allora dove siede il senso della prassi comunicativa?

Magister F: Penso che il problema risieda propriamente nella definizione di comunicazione. Essa nella sua profondità etimologica rimanda all’unità d’ufficio: Cum-municare. Ma cos’è che si unisce in un gioco comunicativo, e cosa resta oscuro, separato? Prendiamo l’enunciato pI formulato in prima persona: “Credo che Dio mi salverà”. Sappiamo che esso non ha un criterio pubblico di verificazione e che tuttavia ha innegabilmente un significato, in quanto è un non sequitur arbitrario e assurdo discriminare il significato di un enunciato sulla base della sua possibilità di verifica, . Riscriviamo in terza persona, per amor di eterofenomenologia, dove può rispondere inoltre a criteri di verificazione, dunque è pIII: Magister Franciscus crede che Dio lo salverà. In entrambi i casi ciò che si rende disponibile ai due attori della com-(m)unicazione, ciò che si rende unico fra i due, è il segno, che lo si può supporre saussuriano, dunque s/S (significante su significato). Tutto ciò si rende disponibile nell’ufficio centrale della comunicazione. Ciò che sfugge, restando nel solo dominio linguistico, è una altra dimensione, che è il SIGNIFICATIVO. Questo è il vulnus di ogni comunicazione, oltre alla tenebrosità degli enunciati; ossia, quanto è significativo l’enunciato PI per chi l’ha pronunciato. Il ricevente dell’enunciato sconterà dei problemi interpretativi, non perché ignora la dimensione del significativo, ma perché vi si approccia positivamente con il proprio: Ciò implicherà che ad ogni oggetto muto, il soggetto vendemmia con un approccio in terza persona giacché è il suo solipsistico significativo che fa risuonare senza che ciò comporti una sopraffazione, poiché comprendere l’oggetto non necessita la comprensione di alcun significativo, di cui l’oggetto senza il soggetto ne sarebbe naturalmente spoglio; l’oggetto infatti, che non è un Tu, ossia un sistema di credenze ulteriore, ma è sempre semplicemente un lui, un soggetto muto, non può far altro che assecondare il sistema di credenze dell’osservatore. E anche quando lo smentisce, lo fa sempre nel gioco di tale sistema. Nell’oggetto che parla, si cela tuttavia, sempre un significativo altrui.

Dennett: Per quanto affascinante, il tuo altro non è che un tentativo di contrabbandare i qualia, attraverso sedicenti forme misteriche. Tutto ciò che ci può essere di significativo, qualitativo, che dir si voglia, lo si può ravvisare eterofenomenologicamente, mediante il monitoraggio e la lettura dei dati inerenti ai mutamenti fisiologici e cerebrali. Non si può pensare di reintrodurre un sedicente problema difficile della coscienza passando per le catacombe del dibattito, in un mondo che ne ha denutrito la legittimità.

Magister F: Ma il significativo non è il qualitativo, giacché quest’ultimo nella sua definizione consueta sta sotto il livello del linguaggio. Il significativo risiede propriamente nel linguaggio e pervade la narrazione. Non ha un aderenza cerebrale, giacché esso è di natura propriamente semantica.

Immaginiamo San Sebastiano martire che si lacera le carni avvertendo un immane dolore. Lo si approcci con il metodo eterofenomenologo e si constati con apparecchiature ipersofisticate l’attivazione elettrica del suo rispettivo cerebrale che potrebbe in forza di un miracolo neuroscientifico addirittura suggerire il livello di dolore misurato su una scala oggettiva. Gli si chieda di pronunciarsi sulle sue esperienze coscienti e si immagini che egli confessi di sentire un atroce dolore pervadergli le carni e il suo spirito sollevarsi nei cieli eccelsi. Noi, eterofenomenologi, non avremmo problemi a taccuinare questa sua credenza, e successivamente a spiegare tutto ciò che è eccessivo risalendo la china della grande narrazione cristiana. Non avremmo problemi ad ammettere che per lui ciò sia significativo, per quanto in gloria di giustizia lo si possa reputare pazzo, ma ciò che è significativo per noi, in quanto agnostici, non importa. Il punto è che, per quanto si acceda alla sua narrazione, il NOSTRO sistema di credenze non produce lo stesso significativo, non ci dà nessuno arpione per afferrare il suo. Possiamo sciogliere allora ogni indugio alla seconda persona e provare un tuffo empatico nel soggetto che stiamo studiando, ma oltre a poterlo compatire, per comprendere ciò che è significativo per San Sebastiano, bisogna proprio essere San Sebastiano. Il problema non sta dunque nell’indicibilità dei qualia coscienti, ma nell’incapibilità del significativo. Da ciò consegue che il problema nello studio eterofenomenologico, non risiede nel sistema di credenze del soggetto studiato, ma nel sistema di credenze dell’eterofenomenologo, il quale è depositario di un significativo proprio che inerisce alla propria narrazione, e che sconta l’inconciliabilità con quello del soggetto studiato. Da ciò ne possiamo anche ricavare il crollo del sistema di enunciati su enucleato. L’enunciato 4, collassa sull’impossibilità di praticare una scienza del soggetto in terza persona e dunque di produrre dei criteri oggettivi di validazione, se non quelli interni al proprio sistema di credenza. Sicché si frantuma anche il 2. Si constata che se si assume ipoteticamente il 4, la sua validità la si può attestare soltanto dall’ 1, così come l’ 1 si convalida a partire dal 4. Essendo un diallele anche l’eterofenomenologia, è dunque una narrazione, un sistema di credenze, con i suoi rispettabili significati e significativi.

Dennett: Io penso che tutta questa cavalcata si basi su una caricatura della mia teoria. C’è in effetti gran gioco a sfilacciare un uomo di paglia che abbia perso la tonicità delle sue fibre muscolari. La neuroscienza si è profusa massicciamente su tali questioni. Negli studi clinici e sperimentali su pazienti affetti da disfunzioni cognitive ad esempio, si è evidenziato una correlazione con una parte lesa del cervello che dimostra la modularità e la scomposizione del suo funzionamento, tale da repellere qualsiasi spettro o pilota sommo che pretenda di guidare la macchina; esso è il prodotto, non il produttore di informazioni computate su più livelli di sottosistemi, le quali – come egregiamente hanno evidenziato gli studi di Dehaene e Naccache – vengono trasmesse da uno spazio di condivisione ristretto fra moduli, ad uno spazio ampio, “lo spazio di lavoro globale”, costituito da neuroni corticali collegati da connessioni di lunga distanza, particolarmente presenti nell’area prefrontale, nel cingolato e nelle regioni parietali del cervello; quando un’informazione accede al secondo spazio spezza la modularità del sistema nervoso e rendendosi disponibile ad altri sistemi esecutivi, viene investita da un’ amplificazione dell’attenzione che crea l’illusione magica della coscienza; letteralmente il contenuto conquista la ribalta, la fama fra gli altri contenuti che se la contendono nel cervello.

Ancora contro la tesi di un’ipotetica unita dell’Io, vogliamo sguinzagliare i risultati delle ricerche di Robert Sperry e Micheal Gazzaniga? Negli anni 50 questi due scienziati, lo sappiamo, studiarono pazienti sottoposti a commisurotomia, la recisione del corpo calloso che commissura i due emisferi, e osservarono come il cervello diviso in alcuni pazienti occasionasse un comportamento conflittuale; un paziente osservato da Gazzaniga si trovava addirittura ad abbassarsi pantaloni con una mano e a rialzarseli con l’altra, traendone così una patente evidenza di una clamorosa autonomia dei due emisferi e la conseguente ulteriore solida argomentazione a detrimento dell’Unità dell’Io, le cui personificazioni sono solo narrazioni. Dunque riproporre di nuovo amletici dilemmi non fa altro che riecheggiare pseudo-problemi.

Magister F: Hai ragione Dan! La tua cursoria lucidatura deterge l’aspetto cruciale del problema. La topica dello pseudo-problema è divenuta in effetti la mascella più smossa della diatriba per espellere ogni impurità che appesti l’ascesa dell’esattezza. Ma ti domando: il problema acquista legittimità in forza della verificabilità (o falsificabilità) della sua soluzione? Posto così ciascun problema sarebbe davvero uno pseudo-problema, giacché verrebbe accreditato solo dopo aver rilevato la verificabilità (o falsificabilità) della sua soluzione. Che senso ha verificare preliminarmente una soluzione e poi porre la domanda, se non praticare un rugiadoso esercizio di delirio? Se Marta smarrisce la figlia al seguito di un incidente aereo, la quale però si trova profuga su un’isola deserta in quanto scampata al peggio, Marta dovrà porsi il problema circa l’incolumità della figlia solo dopo che le indagini delle autorità la riportino indietro viva o la riportino cadavere? In caso contrario gli si dirà: Guarda, sintantoché non accertiamo la possibilità di verificare se tua figlia è morta o viva, il tuo potrebbe essere uno pseudo-problema, giacché non è passibile di soluzione. Penso piuttosto, che non esistono pseudo-problemi, ma solo pseudo-soluzioni, giacché il problema di Marta si qualifica tale a prescindere dalla sua soluzione, e in virtù della dimensione del significativo insito nel suo sistema di credenze. É il significativo che pulsa nel significato di un problema, non la possibilità di una soluzione. Se verranno le autorità a confermare l’impossibilità di accertare la vita o la morte della figlia, ciò non estinguerà l’interrogativo di Mary, che per tutta la vita di contro non cesserà di riverberarlo anche se strutturalmente destinato a permanere inevaso. Il problema della coscienza non riguarda la macchina biologica che produce l’Io narrante, ma l’Io narrante che produce la macchina biologica, giacché il problema stesso è possibile soltanto entro i limiti di possibilità di una narrazione; nulla narratio nulla questio!

Dennett: Mi dispiace Magister, ma le locuzioni latine da filosofo scolastico non attecchiscono sulle mie persuasioni; se dovessimo accettare questa visione tutto sarebbe ridotto a credo, ripianando qualsiasi epistemologia, rendendo discutibile anche lo sforzo di ricerca. Io credo nei fatti, in ciò che è innegabilmente appurato concretamente palpabile. Questo è l’unico criterio che risospinga fuori dalla torre eburnea ciascun assertore; altrimenti tutto sarebbe davvero un fatto di conversione e non di persuasione. Io penso, con venerando rispetto, che il suo nicodemismo sia stato disvelato in virtù di un sentimento larvale che fin dal principio rasentava il religioso.

Magister F: Penso tu abbia ragione caro Dan; Ho vergognosamente presieduto a due abiure e a due riconversioni ad uno stretto giro di lancetta. Penso che debba cercarti un altro eterofenomenologo, forse un po’ meno tiepido nel sostenere le sue tesi, ossia senza che le impugni nel medias res di una seduta.

Dennett: Non ti preoccupare. Ho avuto piacere nel discorrere con lei, e per quanto me ne vada immutato nella teoria, sicuramente non potrò tacciare di staticità la pratica discussiva. Cercherò un altro eterofenomenologo, ma non informerò l’autore dell’articolo, non si dia mai che ci sviluppi un altro, verboso elaborato a supplizio di ciascun malcapitato lettore; chi leggerà queste righe sarà stato il superstite di una manciata di curiosi, i quali fiaccati da tanta ridondanza avranno benpensato ad itinere, di abdicare dal tentativo scagliando ingiuriosi anatemi contro lo scrittore.

Magister F: Accordo la mia voce al tuo tono. Mi unisco nel fare un plauso allo spirito intrepido che si è imbarcato in questo beccheggiare di bandiere e di pensieri. Mi accommiato anche io date le fughe d’ombra che annottano il paesaggio fuori dalla finestra. Ho sempre accarezzato l’idea che in assenza di ombra, nessuna contezza sarebbe in fondo, realmente coltivabile.

E giacché evocavi prima la religione, vorrei che rilucessi il sentiero di ritorno, con una perla tratta dal Corano:

«Io non adoro quel che voi adorate
e voi non siete adoratori di quel che io adoro.
Io non sono adoratore di quel che voi avete adorato
e voi non siete adoratori di quel che io adoro:
a voi la vostra religione, a me la mia»

 

“Sura CIX, Al-Kâfirûn, Corano”

 

DI FRANCESCO, M. MARRAFFA, A. TOMASETTA, Filosofia della mente, Carocci editore, Roma 2017
M.F. BEARK, B.W. CONNORS, M. A. PARADISO, Neuroscienze, Esplorando il cervello, III ed. it. a cura di C. Casco, L. Petrosini, M. oliveri, Elsevier editore, Milano 2007
DANIEL DENNETT, Sweet Dreams, Illusioni filosofiche sulla coscienza, trad. Antonino Ciuffo, RaffaelloCortina Editore, Milano 2006
DENNETT, D. HOFSTATDER, L’io della mente, trad. Giuseppe Longo, Adelphi, Milano
NAGEL, Mente e Cosmo, trad S. Songhorian, a cura di M. Di Francesco, RaffaelloCortina Editore, Milano 2015

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