Nelle ultime settimane si sta vivendo una situazione che, probabilmente, si può definire in un unico modo: distopia. Questa nozione proviene dal greco antico “δυς-” (dys) “cattivo”, e “τόπος” (topos) = ”luogo”. Un mondo distopico, anti-utopico viene di solito proiettato nel futuro, un futuro lontano, un avvenire in cui persino la nozione stessa di progresso – da sempre insita e immersa nella parola futuro- non vale più, ha perso tutto il suo precedente valore. Ultimamente si cerca, disperatamente e ardentemente di non pensare al futuro, di restare nell’angolino di nicchia per cercare di evitare ciò che avverrà. Il futuro, in questi ultimi giorni, ha un valore intrinseco: paura, timore, pericolo, inquietudine. E’ un avvenire molto simile a ciò che fu rappresentato nel ventesimo secolo da Paul Klee nell’opera Angelus Novus e descritto dal filosofo Walter Benjamin, un futuro in cui, un angelo cerca di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo, il passato.
Questo viene visto come una mera e semplice catena di eventi che tendono naturalmente o storicamente a susseguirsi tra loro, quasi come un meccanismo automatico destinato a compiere il medesimo movimento eternamente e perennemente. Ma l’angelo non riesce a vedere il passato, “ ciò che è stato” così, egli vede un’unica grande, immensa e ineguagliabile catastrofe che continua ad accumulare corpi, tragedie, drammi, rovine. L’angelo vorrebbe fermarsi per cercare di “ricomporre l’infranto” ma non può poiché è bloccato da qualcosa più grande di lui, qualcosa che non riesce a dirigere e a dominare: il progresso. Questo viene personificato da parte di Benjamin come una bufera che soffia incessantemente dal paradiso e provoca la continua e insopprimibile avanzata dell’angelo, un’ avanzata che spinge incessantemente verso il futuro, verso il progresso, verso un domani migliore e sereno, verso una chiara ed evidente inazione. A causa di questa tempesta l’angelo è bloccato, è limitato nelle sue azioni ed è così costretto a seguire la bufera, il futuro, l’avvenire e il progresso. Questo è ciò che si sta attraversando nell’ultimo periodo, si cerca irreparabilmente e a volte anche inconsapevolmente di destare, di scuotere dall’inerzia e di risvegliare i feriti o i morti che giacciono nel passato per tentare di vivere un avvenire roseo, fruttuoso e positivo. Perché la nozione di positività è sempre concessa senza troppi scrupoli all’avvenire? Il futuro in questo caso ha il semplice e cupo ruolo di una prostituta o concubina che si concede al suo uomo per la momentanea e instabile ebrezza del momento.
Questa distopia è ormai realtà, si può dire che si sta vivendo a tutti gli effetti un’ apocalisse culturale, come affermò l’antropologo De Martino a cui si deve lo sviluppo della nozione di fine del mondo: essa avviene attraverso la crisi dell’ethos del trascendimento o della ”presentificazione emergente”, ovvero il principio in base al quale diviene possibile il mondo in cui si è presenti, la spinta insita in ogni individuo a trasformare la datità del reale, l’ambiente naturale circostante. Ogni individuo tende inconsapevolmente a rendere soggettivo il mondo che gli appare oggettivamente davanti. La realtà viene filtrata sin dalla nascita tramite l’ambiente, la cultura, la quotidianità circostante ma anche dai sensi, dalle sensazioni, dalle emozioni e dai sentimenti che si provano in modo consapevole e non, è sempre viva e vegeta la tesi utilitarista secondo la quale si cerca di soddisfare il piacere e allontanare il dolore, ecco, anch’essa ci porta ad individualizzare e personificare il mondo.
Tutto ciò, visto nella sua completezza e totalità porta ad affermare che nessuno conosce realmente il mondo, nessuno ha una visione oggettiva di esso. Ma questa capacità insita inconsapevolmente in ognuno di noi può subire una crisi, un arresto, nel momento in cui si ha un crollo della quotidianità, delle attività giornaliere, un indebolimento o un blocco dell’”essere parte cosciente del mondo”, quando si perde ciò a cui si è stati attaccati nel corso dell’intera vita. L’ethos del trascendimento demartiniano è influenzato prevalentemente dal Dasein heideggeriano (esserci): la possibilità dell’esserci nel mondo; quest’ultima crea però una condizione di stasi e di fermo poiché si tratta di una mera possibilità dell’esser parte del mondo piuttosto che un aspetto attivo di esso. De Martino dunque, sviluppa l’esserci di Heidegger in doverci-essere: essere parte cosciente, attiva e consapevole del mondo, essere parte dell’umanità che rende il mondo tale. Le apocalissi culturali possono portare ad un ulteriore, più profonda e radicale apocalisse, la psicopatologica. A differenza della prima che è insita in un’intera comunità, nazione, società, e disturba il modus vivendi che si è insediato in essa, quest’ultima è immersa in un singolo individuo, in un’unica persona che si ritrova a vivere una vera e propria psicosi in se stesso e con se stesso. Una sorta di malattia di Roquentin, protagonista de “La nausea” di Sartre, che si instaura in una persona fisica e reale. Un incosciente e irrimediabile tornare indietro, bloccarsi, fermarsi provocato da una mancanza improvvisa nella sua quotidianità, nelle sue azioni giornaliere.
L’apocalisse culturale è ciò che stiamo amaramente vivendo, una completa mancanza delle principali libertà non si vedeva da un bel po’, ma qui, per ora, non c’è nessun Grande Fratello che ci guarda e ci giudica, probabilmente soltanto immergendoci in essa e inabissandoci con lei riusciamo a raggiungere e a sollevare valori, virtù, mancanze o presenze completamente assenti oggi. Perché non prendere coscienza, consapevolezza del senso della fine? Perché non sprofondare con esso? Perché non raggiungere ulteriori realtà tramite e grazie ad esso? Perché evitarlo? Perché- utilizzando la poesia della scrittrice polacca Szymborska- non prediligere il “non chiedere per quanto ancora e quando e considerare persino la possibilità che l’essere abbia una sua ragione”?