Άνδρεία: sotto le ceneri di questo termine, giace sepolto il coraggio, la virilità, il valore dello spirito greco ancestrale, verso cui gli uomini nell’ evo classico aspiravano, in quel processo di άνδραγεθεω (andranghetheo), per nobilitare la propria esistenza e statuto sociale.
Nella “Μεγαλε Ελλαδα” (Magna Graecia), odiernamente si raccoglie il retaggio dell’ Άνδρεία, depravandone la semantica e riempiendone la capienza con contenuti tali, che nonostante, senza tema di smentita, essi ribocchino dai bordi, l’Andreia ci pare oggi più che mai un nome vuoto.
Macchinale, ma leggiadro nella sua semovenza, nella canicolare coreografia quale si addice e si ridice, e si contempla nell’arsura dei suburbi, nelle dipsomanie dei reietti, negli starnuti indefessi dei cosmologi, levita accoccolato nel carro, indifferente nel suo portamento ma differente nel suo portato, come un baco da seta srotola la propria trama, e nel teatro mondano, lucifera e cala il sipario, levita gareggiando con il fiato del suo anelito, il sole perpetuo al meriggio della sua corsa.
Che mai sovrasta della sua tela, che possa vincere l’oscura sorte che gli inquieta le spalle, l’alambicco che espia nella combustione della sua alchimia? Troppo sollecito nel vedere, troppo smagliante per essere visto, esso ritrae il suo accorato raggio dietro i nembi transeunti, e in uno stormire di girasoli rivitalizza i colori del suo pennello, affresca con l’alacrità di un cesello l’aria che satura ogni battito di respiro, e pare che l’andirivieni del brio sia processo smisurato. Eppure non ha occhi per pensare, dita per vedere, ciò che la mente ha disegnato. Giacché dall’infimità del suburbio, il suo meccanicismo sembra adombrare un’insidenza artistica, tale da imbarazzare le gote di un chicchessia sedicente demiurgo, che voglia arieggiarne gli archetipi. E chiunque non volga lo sguardo all’artefice, né potrà fugare l’abbacinamento, che affilato come una spada sprofonda le pupille, né potrà non udire il sussurro che il vento gli asola al cranio: “Ciò che fa dell’oscuro una visione, è una visione che fa dell’oscuro”. Eppure Andrea non si premura dell’ossigeno che inala, dello scirocco che gli bussa sibillino alle spalle, nonostante è il principio medesimo che giustifica il suo gongolarsi, ma si limita a lapidare lo stagno, dondolando arroccato su un altura le sue corpulente ginocchia e spuntando una spiga, si bea nello splattico tonfo dell’acqua che, risalendo come innocua spuma, risospinta da una risentita rappresaglia, mai gli lambisce i talloni, ma ridiscende astenica, vinta dalla gravità del suo destino. E Andrea, ad onor del vero, il cui suo di destino pretende di dischiuderlo al nome, non si limita sullo sfondo di illimitate possibilità, ma si illimita nel suo limitato paesaggio. Colpisce lo specchio acquoreo con inaudita ferocia, giacché non di narcisa memoria, non vede il riflesso che in realtà gli specula il moto. I suoi tratti se spruzzati d’ inchiostro, rivelano l’innocenza di un agnello, che ulula con le fauci del lupo. Lupus et agnus, si legge la cicatrice che gli crocesegna la fronte, intersecando il marchio di un appestato che si atteggia a blasonato esculapio.
Ma chi accusare di paternità per un simile scempio, un ibridomorfo di grottesche sembianze, che fa terra bruciata a tergo il suo stomaco, che sparge l’amianto nei campi di granturco, affinché gli stomaci altri possano bruciare per terra? Chi fu il Rousseau di cui egli fu Emilio, e chi il Mentore di cui egli il Telemaco? Senza tema di smentita, un elogio va intessuto al milite ignoto, l’ignoto pedagogo di acuminata mente, che si sobbarcò questo orfanello utilizzando come metro antitetico Protagora. Già, poiché se l’uomo è misura delle cose, è anche facile perimetrare tutto ciò che declina al di fuori; e la sua antinomia si impose nel contropiatto da misurare con il peso della sua tara. Concluso in nuce il sovvertimento, – donde la seguente massima fu affissa in capo alle sue aspirazioni: le cose misurano l’uomo – , fu agevole imbastardirne la natura fino alla sua estrema landa animale, che misura se stessa sul tono delle cose, tanto da reinterpretare nell’invalsa questione: “Che cosa fai?” il ruolo dell’ uomo ormai non più soggetto attivo, la cui energia transita rematicamente, ma a banale complemento oggetto. Incarnazione di tale miracolo pedagogico è il nostro Andrea, il quale incensa a mento alzato, il suo “pel maculato” e aderisce senza attrito alle periferie della sua bestialità. Diremmo con un colpo di tosse: “fieramente fiera”.
Ordunque si scruti i rantoli famelici delle sue nari, subodorare i feticci delle carni putrefatte, e ordunque si interroghi, si escuta, si accenda la fiaccola del dubbio: “Che cosa fa?”. Andrea fa ciò che la cosa gli ordina, senza sillogizzare sulla cosalità della cosa, ma strofina con la leggiadria di un vezzo al viso irsuto, il valore che la cosa incanala, e che trapassa come un germe sotto i pori del suo epidermide sprimacciando come un cuscino la sua anima plumbea. E la cosa rilascia sulla pingue guancia il violaceo della carta moneta, giacché è questa che alleggerisce la sua mano. Egli spara, spaccia morte, vince appalti, l’ A-Ndrea; e come un agnello rumina la carta, ma come un lupo si abbranca bulimico per procurarsela. Eppure, il nostro Andrea, può arrampicarsi sul banco d’imputazione, e può lui rispondere dei crimini da lupo se il movente che li ha alimentati è un movente da pecora? Cosa sentenzierà mai il giudice, nel suo verdetto per lupi, dinanzi a un volto lanoso da pecora? Si proponga piuttosto un’inchiesta al paidònomos che ha stuprato i sogni di colui che un tempo, fu semplicemente la bellezza vacua della fanciullezza. E come ancora, bordare i contorni dei suoi connotati, come riconoscere la fisionomia del burattinaio? Ci si rifletta a lungo, lor signori, e si incorra nello specchio della domanda per tale riflessione, sicché a buon ragione vedremo emergere la risposta nel riflesso che tale specchio restituisce. Già, poiché ciascuno è lo stupratore di Andrea, e ciascuno ipso facto diviene anche lo stuprato. Ciascuno è il depositario della virtù assiologica, che conferisce il libero arbitrio ad Andrea in virtù di tale assiologia. Si penetri a fondo una borgata incastonata fra cielo e terra, isolata nei suoi costumi per quanto vasti siano gli orizzonti del mare che la bagna, e contigua sia il suo retroterra. Isolata nell’atomismo di una forma mentis che ancora paga lo scotto di un feudalesimo atavico, per quanto ancestrale ha lanciato nostro malgrado la maledizione del suo preterito, nell’ignoto del futuro per ancora molte generazione a venire. La ventura di questa isola culturale non preserva nessun forziere, ma consuma con fierezza, fieramente fiera, il proprio soliloquio, la propria condotta tralatizia vaniloquiando in una parvenza di delirio e tuttavia senza de-lirare mai, difende con la spada la sospirata identità. Difende con la spada la propria identità, condannandosi pertanto all’identico. A morte il forestiero, lo Zarathustra che cercare di sgualcire il tessuto. Sacrilego, i suoi piedi esanimi galleggeranno su per la botola. Appeso dal collo, con lui spira la possibilità di ogni possibile dialettica, di ogni possibile indagine su ciò a cui ciecamente si obbedisce. Tuttavia, giacché identità è qui preso a supplente del termine tradizione, e giacché il trans- dare, come maestra etimologia insegna, è al contempo un trans-dire, ciò che una borgata si rifiuta di accettare dal tempo in un processo di razionale esame, sarà il tempo ad iniettarlo nella borgata, su un livello di improvvida cecità e miserabile catarsi. Ed ecco affacciarsi negli interstizi della tradizione l’occhio ineluttabile del moderno, che adduce i suoi imperativi embricati su quelli senili e schiaccia in un paradosso impercettibile la borgata, la quale espia la sua nemesi e la sua colpa, rea di aver ridotto la tradizione all’identico in modo tanto sconsiderato, tale da dare luogo più che ad una ragionata identità- della-tradizione, ad una becera tradizione-dell’-identico. Se non si vede ciò che sta dinanzi, a ciò non consegue che il davanti non veda noi.
E in questo stagno, che si atteggia ad oceano, e in egual misura la pecora si atteggia a lupo, in questo stagno paludoso, il solo capace di interpretare il detto paradosso e giustappunto il nostro Andrea, che in questo stagno paludoso che continua ad insidiare ci sguazza ubertoso, prosperando in economia e in bestialità, nel mentre quasi fosse in un ginnasio, educa le proprie inclinazione e fortifica le proprie braccia. Andrea è il discente più diligente e solerte, e al contempo il maestro più colto ed erudito. Tutti vogliono essere Andrea, e Andrea vuole che tutti lo siano. Andrea, non teme per la sua identità, ma la semina nei terreni incolti della vulgata affinché la sua identità-della- tradizione possa alimentare sui registri che inconsciamente si offrono come suo fondamento, il fuoco incombusto della tradizione-dell’-identico. Questo è il suo presupposto, quello il suo slancio. E con il presupposto riempe il suo slancio, e con il suo slancio corrobora il presupposto. Sembra avulso al cerchio vizioso, qualsiasi intercapedine da cui lanciare un’ancora di salvezza. La vertigine che sprofonda in questa voragine bulimica copre l’indaco del cielo e ammanta di lutto ogni speranza.
Ma una chiosa è dovere. Andrea non ascolta il vento che percuote i timpani, Andrea non ha le lenti per scrutare il sole, Andrea non è identità-della-tradizione, giacché solleva gli occhi al cielo e li rotea al davanti; Andrea non è la luce, ma l’illuminato, Andrea non è chi guarda, ma il guardato. Andrea non è l’attivo che rende passivo lo stagno, ma è lo stagno passivo che rende attivo Andrea. Andrea è identità- della-tradizione, giacché si identifica nel suo tradirsi, solo in quanto lo stagno è tradizione-dell’identità, ossia si tradisce nella sua identità, e mai viceversa. E con questo eversivo movimento, Andrea panifica il suo nutrimento e imbandisce l’opulenza della propria tavola.
Allora lor signori, chi condanneremo nel plebiscito giudeo: il Cristo o Barabba? Chi condanneremo, dopo aver già fatto esperienza di come l’accusa talvolta è già di per sé una colpa? Ebbene, qui si vuole scagionare il povero Andrea, che macchiando le sue dita di omicidi e truffe, nella sua natura ibridomorfa, lupus et agnus, si limita, ad onor del vero, pedissequamente ad esistere come effetto collaterale di tutte le comunità che, smarrito il lume critico, non danno udienza allo spirar vano del vento: “Ciò che fa dell’oscuro una visione, è una visione che fa dell’oscuro” e si comprimono satolli nelle visioni che sussistono orizzontalmente, ma mai provano a verticalizzare la testa per vedere ciò che ipostatico e impermeabile si condensa al di sopra e rende virtuosa la loro vista. E proprio da ciò che vedono, rilanciando l’uomo come soggetto nel “Che cosa fai?”, è possibile maturare il lume critico per contemplare l’oscuro velato dalla visione, e a sua volta trovare un altro sole attorno a cui orbitare, che verrà nuovamente discusso e così via all’infinito in un processo “skeptico” che solo potrà realizzare in modo attivo e con contezza d’intenti una sincera e autentica “identità-della-tradizione”.
Ma ad oggi, macchinale, ma leggiadro nella sua semovenza, nella canicolare coreografia quale si addice e si ridice, e si contempla nell’arsura dei suburbi, nelle dipsomanie dei reietti, negli starnuti indefessi dei cosmologi, levita accoccolato nel carro, indifferente nel suo portamento ma differente nel suo portato, come un baco da seta srotola la propria trama, e nel teatro mondano, lucifera e cala il sipario, levita gareggiando con il fiato del suo anelito, il sole perpetuo al meriggio della sua corsa.
Ciononostante, verrà anche qui il giorno della civetta a lumeggiare il sole, ad annunciare che ogni sole, nell’acme più nerboruto del suo vigore, nel meriggio della sua tensione, altro non attende da lì a venire, che giunga il silente occaso.
08/05/2019 LPG